Lost somewhere – Capitolo 6

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Capitolo 5

La ragazza non seppe esprimere nemmeno a se stessa ciò che avvertì nel momento in cui conobbe Wolf. Turbamento, sorpresa, timore, frustrazione e una gran voglia di scappare si impadronirono di lei nell’istante in cui si accorse che quello che era stato pronunciato era il suo nome di battesimo. Emilia non era una delle tante identità che si era costruita per sopravvivere; era lei, in tutti i suoi difetti, le sue ferite, le cicatrici, i suoi errori e le speranze che aveva abbandonato per riuscire a tirare avanti. Si sentì vulnerabile, nuda, pronta per essere dissezionata da qualsiasi sguardo che si fosse posato su di lei; era così indifesa che un sibilo d’aria l’avrebbe ridotta in mille pezzi. Emilia. Lei era Emilia… No, lei non era più Emilia, era solo una ragazza che scappava, perché quel nome le era stato tolto ed era stato sepolto sotto strati così spessi di tempo che nessuno scavando lo avrebbe potuto riportare alla luce. Eppure qualcuno aveva preso una pala, si era recato nel cimitero della memoria e aveva dissotterrato quel nome e tutto ciò che a esso era legato. Quel qualcuno era Wolf e quando gli occhi di Emilia si posarono su di lui, lei capì di essere stata usata ancora una volta. Già ascoltando la sua voce si era accorta che l’uomo incappucciato e Wolf erano la stessa persona, ma quando lo vide e riconobbe in lui l’uomo incontrato nel bar deserto, si sentì sprofondare. Vergogna non poteva essere, però non era nemmeno rabbia per avergli permesso di raggirarla in modo così plateale. Lei, una bugiarda, era stata fregata e aveva creduto alle menzogne di qualcun altro; era stata tenuta sotto controllo senza che lei se ne accorgesse. Se quello non fosse bastato a farla sentire incredibilmente stupida, si aggiunse anche la quantità spropositata di volte in cui aveva ripensato a quella sera e le sciocchezze che aveva immaginato.

Offesa, ecco come si sentiva. Era offesa e infastidita, non solo da Wolf e dalle sue macchinazioni, ma soprattutto da se stessa per aver abbassato la guardia. Aveva passato troppo tempo nello stesso posto e era diventata debole. Si sentiva talmente umiliata che decise di infischiarsene di tutto, persino di dove fosse l’uomo della foto.

Aveva ancora le mani in tasca, le dita della sinistra che sfioravano il biglietto da visita e il resto.

«Questi sono tuoi» tolse la mano e appoggiò tutto il contenuto sul tavolo. «Io me ne vado»

Recuperò le sue borse e si avviò verso la porta scorrevole per uscire da quella casa e lasciarsi tutti loro alle spalle. Wolf le sbarrò la strada con un braccio mentre stava per passare e lei lo guardò immediatamente con aria di sfida. Non le piaceva essere presa in giro.

«Fammi passare»

«Tanta strada e non vuoi nemmeno sentire quello che ho da dire?»

«No» gli afferrò la mano e la staccò dallo stipite. «Ho altro da fare»

«Come vuoi» Wolf si spostò dalla porta, incamminandosi verso il grande tavolo. «Però sei tu a rimetterci, Emilia»

Sentire il suo nome le bloccò le gambe. Non era più abituata a sentirsi chiamare in quel modo; le riportava alla mente un periodo della sua vita che fino a quel momento aveva finto non fosse mai esistito. Vedeva davanti agli occhi un volto ben preciso, due labbra che mimavano le lettere del suo nome, e udiva la voce tenebrosa che da bambina l’aveva svegliata ogni notte. Era tutto finito e non avrebbe permesso a nessuno di riportarla indietro.

«Abbiamo un nuovo incarico» annunciò all’intera squadra. «Questa volta si tratta di qualcosa di grosso. Tez accendi lo schermo»

Emilia non aveva il coraggio di voltarsi, non voleva vedere, ma non riuscì nemmeno ad andarsene, perciò resto ferma, mentre la sala si faceva dapprima buia e poi veniva illuminata da un bagliore bluastro. Sentiva che presto avrebbe fatto un balzo in un passato che avrebbe volentieri lasciato dov’era.

«L’uomo che vedete è Sergej Petrov, trafficante, schiavista, assassino e capo di uno dei giri criminali più grandi del Paese. Ritenetevi fortunati perché siete i soli al di fuori della sua cerchia a sapere che aspetto abbia»

«Sergej Petrov» ripeté Zomor. «È fantasma. Nessuno sa chi è o dove è. Se sai, è perché tu con lui e presto tu morto»

«Esatto. Finora nessuno lo aveva mai visto, ma una telecamera lo ha ripreso all’uscita di un locale privato quattro giorni fa. Dubito che sia un caso, quindi dobbiamo pensare che Sergej volesse far sapere che è in città»

«Qual è il locale?» questa volta fu Claire a parlare.

«Lo stesso dove siamo stati ieri Yassin ed io. A una prima occhiata, non sembra abbia concluso nulla ma è presto per dirlo. Il nostro compito è tenerlo d’occhio, infiltrarci in qualunque tipo di affare stia conducendo e alla prima occasione, ucciderlo»

«Un piccolo lavoro» Emilia sentì risuonare i passi di Yassin sul pavimento. «Perché lo vogliono morto?»

«Una quindicina d’anni fa, Petrov era conosciuto per essere il capo di un gruppo di sicari particolarmente crudeli. Erano chiamati Mano Nera e facevano tutto il lavoro che i tirapiedi ordinari non potevano fare perché troppo grandi»

«Usava gruppo di nani?» Zomor ci scherzò sopra ma a Emilia si accapponò la pelle.

«Se fossero stati nani, la loro fama non sarebbe durata tanto a lungo. No, i componenti della Mano Nera erano bambini tra gli otto e i dodici anni. Sergej li faceva rapire dai quartieri più poveri, li addestrava e poi li usava per uccidere chi gli metteva i bastoni tra le ruote. Di solito, erano persone non legate al mondo criminale e quindi più facili da avvicinare con dei bambini» la luce sulla parete davanti a Emilia scomparve per un secondo, per riapparire subito dopo con un colore più grigiastro. Wolf doveva aver cambiato immagine sullo schermo. «Questa è la foto segnaletica di Tom King, arrestato all’età di undici anni perché trovato sulla scena di un crimine compiuto dalla Mano Nera. Dopo alcune settimane di interrogatori, la polizia riuscì a fargli confessare tutto quello che sapeva su Sergej e sugli altri membri, ma le indagini non portarono a nulla. Tom fu rilasciato e un paio di giorni dopo lo trovarono morto insieme a tutti gli altri bambini scomparsi. In tutto erano una trentina e furono eliminati perché ormai erano stati compromessi»

«Chi ci ha ingaggiati? I genitori dei bambini o i parenti delle loro vittime?»

«Entrambi e ieri si sono aggiunti anche i nemici di Petrov. Ci aspettano cinque milioni ciascuno alla fine di tutto, oltre a quello che riusciremo a sottrarre a Sergej»

«Perché ora?» domandò una voce esile che Emilia non aveva ancora sentito. Doveva essere il ragazzetto problematico al computer. Già, perché ucciderlo dopo tutto quel tempo? Lei conosceva la risposta ma aveva paura di ricordarla.

«Perché tutti lo hanno sempre creduto morto. Vi ho detto che i bambini scomparsi furono tutti uccisi, ma uno dei membri della Mano Nera non era stato rapito, faceva già parte della cerchia di Petrov prima dell’istituzione del gruppo di sicari, e fu il solo a sopravvivere» ascoltando Wolf, lo stomaco di Emilia si strinse. Non voleva sentire nient’altro, altrimenti sarebbe esplosa, ma lui non si fermò. «Fu anche il solo che riuscì a sottrarsi al controllo di Sergej e a scappare, e lo fece dopo avergli sparato. Useremo quella persona per entrare in contatto con Petrov e guadagnare la sua fiducia»

«Come puoi essere così stupido?» Emilia non riuscì più a ascoltare quelle assurdità. Aveva sopportato abbastanza e finalmente riuscì a voltarsi per guardare quei poveri illusi. «Non si fiderà mai di qualcuno che ha cercato di ucciderlo»

«E tu che ne sai?» Yassin non fece in tempo a bloccare Claire, che si alzò dal divano e si mise di fronte a Emilia con la chiara intenzione di picchiarla.

«È lei il nostro contatto con Sergej Petrov» Wolf fece tintinnare le monete lasciate sul tavolo. «Emilia è l’unica sopravvissuta della Mano Nera»

«Lei?» Claire le puntò l’indice contro la clavicola e premette l’unghia sulla pelle scoperta. «Un sicario?! Ma se non sa nemmeno fare a pugni»

«Togli quel dito» era finito il tempo dell’“Ascolta e poi decidi”. Emilia sapeva quello che doveva fare e il piano prevedeva la fuga anche quella volta, solo che la sua determinazione a scappare era molto più forte che in altre occasioni. Mai e poi mai sarebbe tornata davanti a Sergej e il solo motivo per il quale aveva seguito Claire fin lì era scoprire dove fosse per poi andarsene il più lontano possibile da lui. Aveva sempre agito così e non avrebbe certo smesso quando era necessario continuare in quel modo. Solo alla morte di Sergej si sarebbe fermata ma lei non aveva intenzione di cercare di ucciderlo una seconda volta. La prima e le sue conseguenze le erano bastate.

«Altrimenti?» l’unghia entrò ancora un po’ nella pelle.

«Ti sarà difficile puntarlo un’altra volta» piegò un braccio all’indietro verso la schiena, all’incirca all’altezza della propria cintura, cercando una cosa che usava solo in caso di emergenza. Tasto ma non trovò nulla.

«Se cerchi il tuo coltello, Emilia, l’ho preso io» Wolf glielo mostrò e poi lo mise sul tavolo. «Siamo qui solo per parlare»

«A me sembra che vogliate qualcos’altro da me» chiuse la giacca fino al collo quando la bionda tolse il dito dalla sua clavicola. «Io non intendo farlo, quindi ora me ne vado»

«Non lo rivuoi?» indicò il coltello.

Ci pensò quel tanto che bastava per decidere che aveva tenuto quel coltello troppo a lungo. Scosse la testa e voltò le spalle a quei cinque disperati. Voleva dimenticare ogni cosa che ancora la legava alla sua vecchia vita e riprendere a non esistere, esattamente come aveva fatto fino al giorno prima. Poco importava che conoscessero il suo nome o quella parte del suo passato; loro non erano nessuno e lei li avrebbe presto dimenticati, non li avrebbe nemmeno più rivisti perché Sergej si sarebbe occupato di quel contrattempo nell’unica maniera possibile. Erano condannati, uomini morti che camminavano, e lei non voleva fare parte del gruppo. E se ne stava già andando, era già arrivata a metà corridoio quando Wolf disse qualcosa che la convinse a tornare sui suoi passi. Avrebbe cercato di capire se fosse vero e poi se ne sarebbe andata, indipendentemente da quello che avrebbe scoperto. Era solamente curiosa di sapere se la distanza che poteva mettere tra lei e Sergej sarebbe bastata a tenerla fuori dai guai.

Si affacciò nuovamente sul salotto e dal modo in cui Wolf la guardava, si accorse che aveva fatto ancora ciò che lui si aspettava.

«Sì, Emilia» confermò, incrociando le braccia al petto. «Sergej ti sta cercando»

Una persona che si guadagna da vivere mentendo non può sopravvivere a lungo. Prima o poi si tradirà, finirà in una trappola e a quel punto sarà spacciata. Emilia sapeva che in tutti quegli anni aveva giocato col fuoco, si rendeva perfettamente conto di essere arrivata al capolinea e lo sapeva perché era stato Sergej a metterla in guardia. Lui le aveva insegnato tutto e le aveva anche detto che, alla lunga, non sarebbe sopravvissuta, non senza di lui; lo aveva urlato anche dopo che lei gli aveva sparato e poi era scoppiato a ridere. Ora capiva il senso di quella risata. Anche lei aveva le ore contate.

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Lost somewhere – Capitolo 5

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Una vita passata nell’ombra, senza mai eccedere in ciò che faceva per timore delle conseguenze o di dover cambiare città per essere finita sulla lista nera di qualcuno, e dedita all’inganno perché era quello che le era stato insegnato; non si era mai posta il problema di cosa potesse fare per cambiare le carte che le venivano servite lungo la strada per il semplice motivo che ci aveva provato una volta e ciò che era accaduto dopo l’aveva messa in guai ben peggiori. Si era sempre mantenuta ai margini perché era più comodo e le permetteva di vivere senza avere troppi problemi, ma mentre si sedeva nell’auto della donna e quella partiva, si rese conto che si stava esponendo di nuovo e lo faceva per colpa della stessa persona. Di certo lui le avrebbe detto che solo un’incapace e una stupida poteva comportarsi in quel modo, anzi le sembrava di sentire il timbro scuro della sua voce mentre lo diceva, però aveva smesso di tenere in considerazione le sue parole molto tempo prima. Era per quello che riusciva a restare in macchina senza preoccuparsi troppo, perché anche se sapeva che stava contravvenendo a ogni regola del buonsenso, le restava la certezza che avrebbe finalmente messo la parola fine a una fuga che durava da anni.

Tutto ciò che la donna le disse mentre l’auto correva veloce da un capo all’altro della città fu di chiamarsi Claire; non aggiunse niente né su dove la stesse portando né tanto meno le disse perché la foto di quell’uomo era la causa che l’aveva spinta a cercarla. Però le suggerì di dormire un po’, aggiungendo che l’avrebbe svegliata lei non appena fossero arrivate a destinazione.

Per quanto sentisse il bisogno di chiudere gli occhi e abbandonarsi alla tranquillità del riposo, non si fidò di abbassare ulteriormente la guardia ma rimase sveglia e vigile per tutto il tragitto. Memorizzò buona parte del percorso e fissò nella sua mente dei punti di ferimento, così da non perdere l’orientamento nel caso fosse scappata e avesse dovuto percorrere la strada a piedi. Passarono quattro semafori, tre volte andarono dritte e alla quarta svoltarono a sinistra, poi una serie di deviazioni e si ritrovarono su una strada deserta, invasa da sterpaglie e dalle fronde degli alberi; piccoli scossoni accompagnavano l’avanzare della macchina, dove le radici si erano infiltrate sotto l’asfalto, deformandolo e rendendo impervio il passaggio.

Proseguirono in quella direzione per molto tempo, tanto che presto la notte e le stelle si diradarono e il giorno si fece un po’ più vicino. La ragazza cominciava a sentirsi stretta in quell’auto, troppo vicina a una donna che non conosceva e ben lontana da una strada battuta. Le mani le prudevano dalla voglia di aprire la portiera e saltare in mezzo agli alberi, ma la frenava la consapevolezza che tutto ciò che possedeva si trovava nel baule e non avrebbe potuto recuperarlo. E poi c’era la foto, quell’immagine sfuocata di un uomo che poteva anche non essere lo stesso, ma che era abbastanza simile da indurla ad agire contro ogni logica. Tenne a freno le mani e guardò fuori dal suo finestrino.

La strada asfaltata era terminata da un pezzo e al di là delle piante, che comunque continuavano a costeggiare il passaggio, si intravedevano sprazzi di paesaggio. Un campo arato, seguito da un piccolo bosco composto da alberelli dal fusto esile e infine un altro pezzo di terra coltivato, questa volta però separato dalla strada da un fiume placido di acqua cristallina. La campagna distava quattro ore dalla periferia da dove erano partite, ma loro erano in viaggio da molto più tempo. La ragazza dedusse che, dovunque la stesse portando, chi aveva mandato Claire non voleva farsi trovare facilmente.

«Tenete molto alla sicurezza»

La donna bionda al volante la guardò distrattamente. «Non in modo eccessivo»

Furono le uniche parole che si scambiarono in tutto il tragitto. La ragazza, stanca di guardare fuori, ricominciò a sentire quel pizzicorino alle mani e la forte sensazione che la parte anteriore dell’abitacolo fosse troppo piccola per entrambe, ma non disse nulla né si mosse. Dove sarebbe potuta scappare? Era a ore di cammino da qualsiasi cosa o da qualunque strada battuta.

Senza preavviso l’auto deviò su una stradina sterrata grande abbastanza per lasciarla passare e dopo circa mezzo chilometro superò un cancello in ferro battuto mezzo divelto, fermandosi davanti a un’alta villetta a due piani. Dietro si intravedeva il tetto color tortora di una rimessa, mentre sullo sfondo un piccolo laghetto luccicava sotto la luce del sole appena sorto.

«Prendi le tue borse e seguimi» le ordinò Claire scendendo dall’auto e precedendola verso la porta d’ingresso tutta rovinata.

Non avendo alternative, fece come le era stato detto ma approfittò della libertà per dare un’occhiata in giro mentre passava la tracolla del borsone sulla testa e la metteva sulla spalla. La villetta era fatiscente, con la vernice che si staccava dalle assi di legno imbarcate di quello che avrebbe dovuto essere un portico, ma di cui restavano solo tre colonne e un’esigua porzione di tetto; le imposte di entrambi i piani non erano più nei cardini e giacevano abbandonate in un angolo del cortile, in mezzo alle erbacce e all’erba incolta; poche finestre erano ancora integre, anzi, guardando meglio si rese conto che nessuna era sopravvissuta all’incuria o allo sfacelo del tempo. Tutto si poteva dire, tranne che ci fosse vita all’interno di quei muri.

L’interno non si trovava in condizioni migliori, con le pareti attraversate da spifferi e quel poco di mobilio presente ridotto in condizioni disastrose, ma riuscì a sentire chiaramente che, nonostante l’apparenza disabitata, quel posto conservava traccia di chi vi aveva vissuto e di chi in quel momento ci viveva.

«Da questa parte» Claire la guidò attraverso un corridoio lungo e stretto, passando davanti a più porte di quante ne avrebbe immaginate guardando la casa da fuori. Era più grande del previsto. «Anche se tutto l’edificio è agibile, abbiamo preferito installarci nel padiglione ovest. È quello messo meglio» spalancò una porta scorrevole a doppio battente che dava su un ampio salotto. O una stanza che un tempo serviva da salotto, perché quella che la ragazza si trovò di fronte fu una tecnologica sala computer, con uno schermo gigante sull’unica parete non occupata da finestre. I cavi, di tutte le dimensioni possibili e immaginabili, correvano in ogni angolo della stanza, collegati a un’unica postazione centrale, un tavolo ovale che occupava buona parte dell’ambiente e sul quale erano sistemati tutti i dispositivi elettronici. Gli unici oggetti cui non erano attaccati dei cavi erano un divanetto, posizionato nell’angolo accanto alla porta, e una sedia da ufficio, una di quelle con rotelle, che un ragazzetto anemico faceva scivolare da un lato all’altro del tavolo.

Una figura atletica si alzò dal divano. Era un uomo, i tratti del volto decisi, la mascella squadrata e leggermente prominente, gli occhi piccoli ma duri e penetranti.

«Lui è Zomor» Claire indicò l’uomo con un cenno, poi puntò il dito verso il ragazzino iperattivo. «Mentre lui è Tez» mentre parlava, una delle finestre si rivelò essere una portafinestra perché fu aperta dall’esterno da un tizio di mezza età, la pelle olivastra e i vestiti ricoperti di una sostanza nera e vischiosa. «Yassin, invece, già lo conosci»

Quello che credeva essere un rifugiato politico turco si fece avanti in mezzo al salotto, scompigliando i capelli del ragazzo seduto davanti a uno dei computer quando gli passò accanto, e si fermò davanti alla ragazza. Se lui era lì, doveva esserci anche il tizio incappucciato.

«La mia ambasciatrice preferita» le diede una pacca sulla spalla come se fossero vecchi amici. «Hai dato del filo da torcere a Claire vedo?»

La donna bionda si sfiorò il labbro gonfio. Gli occhi le saettavano. «È fortunata ad essere arrivata qui senza troppi lividi»

Era sorpresa più che sconvolta dall’apparizione di Yassin, ma non lo diede a vedere. Non capiva più perché si trovasse lì. Era evidente che il suo capo si era fatto fregare, lo stesso valeva per i clienti che lo avevano contattato, però lei non aveva la benché minima idea di cosa volessero quei quattro e cosa li legasse all’uomo della foto.

«Che ci faccio qui?»

«Non lo sappiamo» Claire si sedette accanto all’uomo sul divano. «Mi è stato detto di venirti a prendere e di mostrarti quella foto per convincerti a seguirmi»

«Dobbiamo aspettare» Yassin si accomodò su uno dei braccioli. «Quando Wolf sarà qui ne sapremo tutti di più»

«Wolf?» la ragazza, che fino a quel momento era rimasta ferma davanti alla porta scorrevole, abbandonò le borse sul pavimento e fece qualche passo nella stanza. Se doveva aspettare, tanto valeva mettersi comoda e saperne di più.

«Il nostro capo. È lui che mi ha mandata a cercarti»

«Siete i suoi burattini?»

Yassin bloccò Claire con un gesto. Dopo Wolf, doveva esserci lui al comando. «No, semplicemente siamo al suo servizio»

Per lei era inconcepibile un tale comportamento. Assecondare ciecamente le indicazioni di qualcun altro era un modo di fare che a lei non sarebbe mai andato a genio. «Perciò fate tutto ciò che lui vi ordina?!»

«Diciamo che gli dobbiamo molto» Yassin prese la parola per tutti. «Siamo qui perché siamo tutti in debito con lui»

«Dev’essere un tipo speciale per meritare tale cieca fiducia» si avvicinò al tavolo e vi si sedette. Qualcosa le diceva che avrebbe dovuto aspettare un bel po’.

«Cerchi di provocarci?» Claire si alzò di scatto dal divano e le scoccò un’occhiata truce. Non doveva aver preso bene quella storia del labbro rotto. «Perché con me ci stai riuscendo benissimo»

«Claire»

«Non ho intenzione di sopportare questo suo tono, Yassin» si voltò per guardarlo. «Può aiutarci anche con un occhio pesto e due costole rotte»

«Wolf ha detto…»

«Non m’importa un cazzo di cosa ha detto di fare dopo averla portata qui. Se resta, deve imparare quando tacere»

La ragazza si astenne dal ridere. Più osservava Claire, meno la intimoriva la possibilità che potesse picchiarla. Quei tre – perché il ragazzo al computer era come se non ci fosse – non avevano davvero idea di cosa ci facesse lì, perché se avessero saputo chi era l’uomo della foto e il suo legame con lei, non avrebbero di certo pensato che un occhio nero e delle costole rotte sarebbero riuscite a spaventarla. Aveva vissuto di peggio.

«Credo di avere diritto di sapere chi siete. Per quanto ne so, questo Wolf potrebbe anche non esistere»

«Io sono il meccanico, Claire è l’interprete, Tez l’esperto di informatica e Zomor l’addetto alla sicurezza» l’espressione beffarda di Yassin le fece capire che il loro lavoro non era così trasparente come aveva voluto farle credere. Erano criminali peggiori di lei. Incredibile ma vero, quell’idea la rassicurò. Più era sporco, più si sentiva nel suo ambiente.

«Spero che tu sappia riparare macchine meglio di come menti»

Yassin rise debolmente, mentre Claire e il tizio sul divano si voltarono per guardarlo. Il ragazzo al computer non sembrò nemmeno accorgersi di ciò che accadeva.

«Wolf aveva ragione su di te. Non si è sbagliato quando ha detto che avremmo dovuto dirti la verità per convincerti»

«Che cosa fate qui?» sorvolò sulla frase. Chiunque fosse Wolf, non doveva essere sottovalutato e iniziava a sospettare che fosse lo stesso uomo visto con Yassin quella sera.

Il turco, sempre che lo fosse davvero, si passò una mano sulla guancia, insistendo sulla cicatrice. «Beh, per quanto mi riguarda, io mi occupo di macchine, qualunque tipo di lavoro esse richiedano»

«Io tengo i contatti» Claire si fece avanti per seconda, anche se non sembrava molto felice di farlo. «E sbrigo le faccende delicate»

«Tez invece è il nostro hacker» Yassin lo chiamò ma lui non disse nulla.

«Un po’ apatico» commentò la ragazza, ben sapendo che non avrebbe comunque ottenuto una reazione. «E lui?» indicò l’uomo sul divano.

«Esperto di armi» il diretto interessato non aspettò che Yassin rispondesse per lui. Aveva uno spiccato accento russo.

Dunque. Un meccanico, una spia, un hacker e un potenziale assassino, sempre che non lo fossero anche gli altri. Era finita in una situazione più complicata del previsto, e ancora non sapeva cosa volessero da lei. Decise che avrebbe creduto alla storia del “Solo il nostro capo conosce il piano” e che avrebbe aspettato l’arrivo di Wolf prima di decidere il dà farsi. Nessun le aveva detto che poi era obbligata a restare.

«Comunque non avete risposto. Cosa fate qui?»

«Risolviamo i problemi che nessuno vuole vedere» Yassin rispose per tutti.

«Continuo a non capire»

«Sarà tutto più chiaro all’arrivo di Wolf»

Chi diavolo erano quei quattro? Le sembravo un branco di sprovveduti in attesa del salvatore, solo che nessuno li avrebbe potuti salvare se l’uomo della foto aveva qualcosa a che fare con loro. Lei lo sapeva bene.

Infilò le mani nelle tasche della giacca e qualcosa di ruvido le solleticò i polpastrelli. Era nuovamente quel biglietto da visita dimenticato sul bancone del bar da quel logorroico. Trentasei ore non le erano mai parse così lunghe, eppure la conversazione di quasi due giorni prima sembrava essere un ricordo vecchio di secoli e per quanto fosse insignificante, aveva scavato un solco profondo nella sua mente. Era convinta che ogni ricordo a lei caro fosse come un’incisione sul cuore cicatrizzata male, insostenibilmente dolorosa se solo ci ripensava, e dopo quella sera ne era apparsa una nuova legata a quel bar e a quell’uomo; circondata da quegli sconosciuti, si sorprese a pensare cosa sarebbe accaduto se lo avesse ritrovato dopo averlo inseguito per rendergli i suoi soldi. Tutto o forse niente, ma era questo a lasciarla insoddisfatta: il non sapere cosa sarebbe potuto accadere. Era in quella casa in mezzo al nulla, con quattro persone di cui non sapeva assolutamente niente e che l’avrebbero riavvicinata all’uomo che era stato come un padre per lei e tutto ciò che le interessava era immaginare una conversazione mai avvenuta con un tizio che non avrebbe mai più rivisto. Preferiva pensare a quel tipo in giacca e cravatta piuttosto che affrontare la realtà dei fatti; pensare a lui non era doloroso quanto ripercorrere i momenti della sua vita che riguardavano l’uomo della fotografia.

«Che razza di nome è Zomor?» domandò di punto in bianco, staccandosi dal tavolo quando l’apatico hacker la guardò in malo modo perché era in mezzo ai piedi.

«No è nome. Sopranome» la corresse il russo. «Io chiamo Dimitri»

«E Zomor da dove arriva?»

«È serbo. Significa “all’alba”» fu Yassin a risponderle, dopo aver afferrato Claire per le spalle e averla fatta nuovamente sedere. «Perché non glielo racconti Dimitri? Così inizia a fidarsi di noi»

Il russo accennò un ghigno soddisfatto, incrociò le braccia al petto e si lasciò andare contro lo schienale. «Mia moglie aveva amante serbo. Suo nome legato a qualcosa come “alba”, quindi io ucciso lui allo spuntare di sole e poi seppellito sotto ghiaccio di Siberia. Sua vedova dato me sopranome»

«E tua moglie?»

Zomor rinnovò il sorriso, mentre i suoi occhi piccoli guardavano divertiti la ragazza. «Fa lui compagnia»

«Perciò sei un criminale» era quasi divertita dal tono di Dimitri, non spaventata. In un certo qual modo si sentiva a proprio agio.

«Tu invece chi sei?» Claire la apostrofò infastidita. «Hai voluto sapere di noi, ma tu non ci hai detto nemmeno il tuo nome. Non sappiamo nemmeno perché tu sia così utile»

La ragazza ci pensò per un attimo. Se nessuno di loro sapeva niente su di lei, sulla sua vera identità, allora poteva fingersi chi voleva. Poteva ancora una volta tenere lontana la vecchia sé dal mondo esterno e usare uno dei tanti personaggi che aveva creato e perfezionato negli anni. Jessica, scappata di casa da bambina perché i genitori la picchiavano; Katja, immigrata senza documenti; Paula, figlia di ricconi desiderosa di un po’ di attenzione da parte della famiglia. Avrebbe scelto una delle tante, qualunque di loro andava bene, poteva essere chiunque ma non se stessa.

«Io…»

«Lei è Emilia» tutti si voltarono verso la porta e guardarono l’uomo che aveva appena parlato. «Ed è qui perché credeva di aver ucciso un uomo»

Lost somewhere – Capitolo 4

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Quella non era la prima volta, e quasi sicuramente non sarebbe stata l’ultima, che abbandonava tutto e tutti senza avvisare o dare spiegazioni. Si era sempre preoccupata delle implicazioni e delle conseguenze che potesse avere un lavoro come il suo su un tipo di vita stabile, o che cercava di essere stabile, dunque si era sempre tenuta pronta per una possibile fuga ed era preparata all’idea di cambiare città, nome e passato per sopravvivere da qualche altra parte. Con il passare degli anni era diventata una routine, che aveva smesso di pesarle non appena si era accorta che quello era il solo modo che le consentiva di restare in vita il tempo sufficiente per racimolare un po’ di soldi e scegliere la meta successiva del viaggio.

Per un mese, però, si era illusa che forse quella città sarebbe potuta diventare un punto fisso nella sua esistenza; era il posto in cui aveva passato più tempo e in quei tre anni le aveva permesso di lavorare senza pensare a cosa sarebbe successo dopo, senza preoccuparsi del tempo le restava prima di essere obbligata ad andarsene. Alla fine, anche quell’illusione era scivolata via e non le era rimasto altro da fare che riprendere la vecchia abitudine, l’unica che non l’avrebbe mai tradita.

Tuttavia, contrariamente a quanto faceva di solito, non si precipitò a casa per fare raccogliere le sue cose e volatilizzarsi nel minor tempo possibile, ma rimase nascosta per più di un’ora in un vicolo dalla parte opposta della strada su cui si affacciava il suo palazzo, tenendo d’occhio l’ingresso e le finestre del suo appartamento al terzo piano. Era certa che qualcuno quella volta sarebbe venuto a prenderla e se così fosse stato, non era sua intenzione farsi trovare. Rimase immobile in quel vicolo per un’ora buona, chiedendosi quando fosse il caso di abbassare la guardia e seguire il resto del piano come era abituata a fare, però poi si disse che era meglio fare in fretta e andarsene per sempre da quella città. Non si era mai trovata in un casino serio come quello e benché non avesse idea di chi fosse in realtà il dissidente turco o di cosa potesse farle, sapeva che lui e tutti gli altri erano da evitare come la peste se volevi restare vivo dopo che il lavoro era stato scoperto.

Forse perché era notte fonda o forse perché aveva ben altre preoccupazioni in quel preciso istante, ma entrando nel palazzo non avvertì niente, la pelle non le divenne elettrica e l’impressione di essere osservata al microscopio non tornò a tormentarla mentre attraversava l’atrio. Non vide nemmeno filtrare la luce da sotto la porta dell’inquilino al piano terra, quella del disimpegno che faceva da ingresso prima dell’appartamento e che veniva lasciata sempre accesa. Non si soffermò a pensare quanto fosse insolito tutto quello, ma si diresse verso il suo appartamento, vi entrò e si precipitò direttamente in camera. La valigia e le borse erano sotto il letto, già riempite di vestiti e di quello che le interessava portarsi dietro. Quella vecchia abitudine era difficile da cancellare e nonostante avesse ben due armadi, aveva sempre trovato più comodo lasciare le sue cose dove avrebbe potuto trovarle e impacchettarle velocemente. Ribaltò il materasso e la rete sul pavimento, afferrò tutto quello che vi aveva nascosto sotto e lo trascinò in salotto. Fece un rapido giro della stanza, in bagno e in infine in cucina per controllare che non fosse rimasto nulla di suo, niente che potesse ricondurre a lei.

Le restavano da prendere solo i soldi racimolati in quei tre anni e i documenti, poi sarebbe sparita per rinascere da qualche altra parte con un nuovo nome e una storia diversa. Stava aprendo la scatola dove aveva nascosto tutto quando iniziò a suonare il telefono; due squilli e poi partì la segreteria. Sorpresa, sentì la voce del suo capo dirle che i clienti erano stati da lui per pagarlo e dirgli quanto avevano apprezzato il suo lavoro, che ne avevano altri da farle fare e che la paga era decisamente buona, meglio di quella di un intero mese del suo attuale impiego. La voce dall’altro lato del telefono era euforica; il suo capo doveva aver ricevuto degli incentivi pesanti per far sì che lei accettasse quell’extra, perché in quel momento faticava a non scoppiare in una risata isterica ogni due parole e perché la pregava di richiamarlo non appena fosse rientrata per decidere quando incontrarsi e darle la sua parte dei soldi. Era brava a capire quando qualcosa si metteva male e ascoltando il suo capo si accorse che non stava mentendo e che i clienti avevano ottenuto ciò che volevano, quindi il turco non aveva detto nulla su di lei e non avrebbero mandato nessuno a prenderla. Per un secondo si sentì più tranquilla e anche la fretta con cui aveva deciso di sparire si fece meno insistente; tuttavia pensò che non le era concesso correre dei rischi tanto stupidi come quello di restare e fingere che nulla fosse successo, perciò avrebbe dovuto continuare con quello che stava facendo. Era sempre stato così per lei e poiché la fortuna l’aveva sin dall’inizio messa di fronte a delle pessime opportunità, non poteva fare altro che continuare a seguire la corrente e osservare dove l’avrebbe portata quella volta, sperando solo che non andasse peggio di prima.

Prese il denaro sufficiente per comprare un biglietto del treno e mise il resto in una delle borse; controllò uno per uno i documenti falsi che si era fatta fare mesi prima e scelse quello con la foto che più assomigliava al suo aspetto in quel momento. Era anche quello in cui il mese e l’anno di nascita si avvicinavano di più a quelli reali, dunque non avrebbe fatto fatica a far credere a chiunque che fosse quella persona.

Stava infilando soldi e documento nella tasca della giacca quando le sembrò di sentire uno scricchiolio di troppo sopra la voce del suo capo; non proveniva dalla segreteria telefonica, ma dal pavimento del suo appartamento. Prima di decidere che avesse ragione e dirsi che avevano davvero mandato qualcuno per sistemarla, aspettò di sentire lo stesso rumore una seconda volta. La prima poteva essere anche una cosa normale in un palazzo vecchio e messo male, ma se accadeva di nuovo doveva iniziare a pensare a come difendersi e scappare. Non dovette aspettare a lungo, perché mentre suo capo le diceva quanto fosse grato di aver trovato una come lei, un cigolio ne coprì la voce.

Si allontanò dal bancone della cucina, lasciando lì tutto quello che aveva tolto dalla scatola e che non era riuscita a sistemare nelle borse, e si appiattì contro la parete nascosta dietro la porta semi-aperta; aveva solo un’arma con sé ed era la sciarpa che portava attorno al collo in quel momento. Se la tolse e attese che chiunque fosse entrato nel suo appartamento si facesse vivo in cucina.

Era una fortuna che alcune assi del pavimento scricchiolassero perché non appena la voce del suo capo scomparve, l’intruso non ebbe modo più di nascondersi e ci volle poco affinché quella presenza assumesse le sembianze di una donna bionda, alta e slanciata. Era certamente stata mandata per ucciderla, quindi non vedeva motivo di andarci piano con lei. Aspettò che si trovasse esattamente di fronte a lei e poi le si scagliò contro, avvolgendole la sciarpa attorno al collo e iniziando a stringere. La reazione dell’altra fu altrettanto repentina: mentre alzava un piede verso il mobile e lo usava per spingersi indietro, allungò le mani verso di lei per cercare di allentare la presa. Ci riuscì e la ragazza si trovò schiacciata contro il tavolo dal corpo della sconosciuta, che senza perdere tempo le rifilò una gomitata nel fianco. Rimase senza fiato e tutto ciò che poté fare fu lasciare andare le estremità della sciarpa; la donna ne approfittò per alzarsi, voltarsi e cercare di colpirla. Il pugno le raggiunse il volto, centrando in pieno lo zigomo. Tempo per lamentarsi ne avrebbe avuto a volontà non appena se ne fosse andata, perciò diede un colpo di reni e si trovò nuovamente in piedi, faccia a faccia con una donna bionda poco più grande di lei. La squadrò per meno di un decimo di secondo e le si scagliò contro, spingendola contro il mobile della cucina. La sua mente era come vuota, non pensava a nient’altro che non fosse la mossa successiva da fare per mettere al tappeto la donna e fuggire da lì.

La colpì senza mai fermarsi; pugni, gomiti, ginocchia, usava ogni parte del suo corpo perché poteva esserle d’aiuto per andarsene, e dove colpire fu il solo pensiero che occupò la sua mente in quei lunghi minuti. Per sua sfortuna, però, la sua avversaria non era poi così sprovveduta come si aspettava e ogni suo attacco fu sempre evitato per poi essere restituito in modo lucido. Contrariamente ai suoi, perciò, i colpi della donna andarono tutti a segno, per quanto fossero un decimo di quelli sferrati da lei. Dopo quello allo zigomo, fu una serie di colpi alla spalla, allo stomaco e al volto a farla vacillare e capì che da lì in avanti non sarebbe più riuscita ad avere la meglio continuando a sferrare pugni alla cieca. Tuttavia, lei non sapeva combattere diversamente, perciò decise che avrebbe fatto un ultimo tentativo e da quello sarebbe dipesa la sua fuga. Era sempre riuscita a scappare in un modo o nell’altro ed era la sola cosa che, dopo il mentire, le riusciva bene.

Strinse il pugno e approfittò del secondo in cui la donna abbassò la guardia per colpirla al volto. Le nocche centrarono in pieno il labbro inferiore, che sbatté contro i denti e lei si ritrovò la mano sporca di sangue; cercò di tirare un secondo pugno nello stesso punto ma il braccio le scivolò a causa dello slancio troppo forte e fu lei a essere colpita. Finì subito a terra, stanca e senza più fiato.

Era finita e sapeva che non sarebbe uscita viva di lì. Aveva resistito quindici anni vivendo in quel modo assurdo e ora per un lavoro da niente era stata scoperta, pestata e presto sarebbe anche morta; era stata fortunata se le era stato concesso di continuare così a lungo e non le restava altro che il rammarico di non aver avuto in dote una sorte migliore. In quei due giorni aveva pensato spesso al suo destino e le venne da ridere quando si ricordò per l’ennesima volta del tizio della sera prima. Sembrava quasi che lui, il resto dimenticato e il biglietto da visita fossero diventati il centro dei suoi pensieri, lei che di solito non si fissava su nulla per più tempo di quanto non fosse necessario.

E stava quasi per mettersi a ridere quando la donna si inginocchiò di fronte a lei, tirandole i capelli con uno strattone per alzarle il volto e guardarla dritta negli occhi. Il suo viso ancora in ordine, fatta eccezione per il labbro rotto e leggermente tumefatto.

«Finalmente ti sei calmata» le tirò i capelli finché non si ritrovò con la testa reclinata all’indietro.

Il dolore fece morire il sorriso che ancora non le aveva sfiorato le labbra e servì per far esplodere un lamento unico da tutte quelle parti del suo corpo che erano state colpite. «Avrei dovuto restare buona e farmi uccidere senza fiatare?»

«Adesso avrei proprio voglia di ucciderti» si sfiorò il labbro gonfio con un dito «Ma non posso farlo»

«Ah no?!» non si illuse. Di certo quel piacere sarebbe toccato al capo della donna e lei comunque avrebbe fatto la fine che le spettava per essere stata scoperta.

«No. Tu ci servi viva»

Quello sì che la sorprese. Era la prima volta che le accadeva una cosa simile e non aveva mai nemmeno sentito dire che una bugiarda era stata risparmiata perché avevano bisogno di lei. Non sapeva dire se quel giorno fosse il peggiore o il più fortunato della sua vita, però ciò di cui era certa era che se lo sarebbe ricordata per il resto dei suoi giorni, se mai gliene fossero stati concessi altri.

«Conosci quest’uomo?» la lasciò andare e tolse una foto dalla tasca dei jeans.

Le ci volle poco per decidersi: quello era il giorno peggiore della sua vita, non aveva più dubbi e niente le avrebbe fatto cambiare idea.

Certo che lo conosceva, anche se erano secoli che non lo vedeva ed era diverso da quello che era rimasto impresso nella sua memoria. Nei suoi ricordi quel viso era ancora giovane, senza alcuna ruga e la barba aveva un colorito bruno e non quasi bianco, ma era sicuramente la stessa persona; nonostante il suo aspetto fosse cambiato e stesse guardando una fotografia sgranata, riusciva a percepire lo stesso magnetismo che quell’uomo aveva sempre emanato e che più di una volta era stato ciò che l’aveva convinta a continuare a vivere in quel modo. Improvvisamente le venne voglia di tornare in quel bar e ordinare una birra scadente, così avrebbe potuto annegare e dimenticare tutto quello che era sbucato dal suo passato, poi però ripensò a cosa significava quell’uomo per lei e quanto dipendesse da lui il fatto che la sua vita fosse diventata uno schifo totale.

«Dove si trova?» il dolore non era più nulla in confronto al desiderio di sapere tutto su quell’uomo.

«Se verrai con me, te lo dirò»

Non aveva bisogno di pensarci. Anche se non sapeva nulla della donna o di chi l’aveva mandata da lei, le bastava avere la certezza che le avrebbero dato delle informazioni sull’uomo ritratto nella fotografia e anche se non le avessero detto niente, l’avrebbe comunque seguita proprio perché si trattava di lui. Quindi accettò, si alzò e dopo aver preso le sue borse e la valigia seguì la donna fuori dal suo appartamento.

Lost somewhere – Capitolo 3

Capitolo 1
Capitolo 2

 

 

«Zucchero»

Detestava quando la chiamava “Zucchero” perché voleva dire che il cliente era un pezzo grosso della politica o che al peggio gestiva una qualche attività illegale. Lo detestava perché metteva nella parola e nel tono con cui la pronunciava un’eccessiva dose di carineria che normalmente mancava e che le faceva venire in mente un’immagine ben precisa: vedeva il corpo flaccido del suo capo appeso per i piedi in un qualche magazzino abbandonato, mentre il cliente lo minacciava di dargli quello che chiedeva se voleva uscire con le sue gambe. Era così che quella storia delle chiamate extra e dei favori era iniziata e tutte le volte che il suo capo le avrebbe chiesto aiuto le sarebbe balzata davanti agli occhi la stessa immagine.

«Evita questa puttanata di chiamarmi “Zucchero”. Chi devo essere questa volta?» si era seduta nel suo ufficio privato quasi mezzora prima e ancora non le aveva detto né per chi, né cosa avrebbe dovuto fare quella sera, dopo che l’aveva fatta precipitare all’ultimo piano della sede della compagnia dicendole che era questione di vita o di morte. Se c’era una cosa che non poteva tollerare, era la vena melodrammatica del suo capo, perché aveva la tendenza a metterla nei casini più di quanto non le succedesse normalmente.

«Vogliono stipulare un contratto con un dissidente turco, però lui in cambio vuole un passaporto diplomatico. I nostri clienti non sono esattamente membri del governo, quindi hanno bisogno di una finta ambasciatrice che lo rassicuri e lo induca a firmare» il suo capo si mise a fumare, tirando boccate sempre più ravvicinate e ansiose. Capì che dovevano averlo appeso per i piedi un’altra volta.

L’idea di fingersi un’ambasciatrice non le faceva fare i salti di gioia. Certo, era una sfida all’altezza delle sue capacità e poteva puntare in alto, ma promettere qualcosa come l’asilo politico era fuori dalla portata di chiunque. Si ripeteva sempre che una buona bugiarda non doveva tradirsi in nessun modo e sentiva che quell’incarico le avrebbe rovinato la serata, oltre a rischiare di farla finire sul libro nero di qualcuno.

«Non hanno tempo di aspettare» il capo le lanciò uno sguardo supplichevole, il che le ricordò inspiegabilmente la voce del tizio nella sua segreteria, quello dell’incontro con i compagni di scuola. Subito dopo si chiese perché era uscita dalla vasca tanto in fretta per sapere di che lavoro si trattasse, quando poteva gustarsi la bottiglia di vino in solitudine e tranquillità. Il pensiero dei soldi e della settimana libera la fecero piombare di nuovo nella realtà; era fatta così e il bisogno di denaro era più forte di qualunque altra cosa.

«Voglio avere carta bianca. Gli farò firmare tutto quello che vogliono, ma non devono interferire» le sembrava una condizione accettabile se avevano un così disperato bisogno di lei. «Altrimenti dovranno chiedere a qualcun altro»

Già sapeva che non le avrebbero mai detto di no e quando il suo capo le disse che i clienti avevano accettato e che stavano venendo a prenderla, avvertì la troppo familiare adrenalina che iniziava a diffondersi in ogni angolo del suo corpo. Trovava stupido cadere nella tentazione di incanalare la pressione in una reazione da principiante come quella di “sentire l’adrenalina” ma quegli extra lavorativi erano le sole occasioni in cui la sua abilità di essere una bugiarda perfetta le sembrava il dono più grande che avesse mai ricevuto. Solo nei primi anni aveva avvertito quel genere di sensazione, che le aveva permesso di arrivare fin lì e di farsi una certa reputazione nel giro, e credeva che una veterana come lei non fosse più in grado di sentire paranoie assurde come l’ansia di fallire. Quei lavori le avevano fatto mettere in discussione ogni certezza e le avevano fatto riscoprire cosa voleva dire dover fare affidamento sull’efficacia della propria abilità nel mentire per evitare di avere problemi. Se ripensava alla prima volta in cui aveva aiutato quel buono a nulla del suo capo, si pentiva immediatamente di non averlo lasciato appeso a testa in giù e di aver detto che ci avrebbe pensato lei risolvere la situazione. Era tardi per i rimpianti e l’avidità le avrebbe causato continuamente problemi.

L’auto del cliente la stava già aspettando quando uscì dalla sede dell’agenzia per cui lavorava; l’autista scese ad aprirle la portiera e mentre saliva, le indicò un plico abbandonato sul sedile. Lo sfogliò mentre l’auto attraversava la città diretta verso il centro, nel quartiere dei ricchi e dei locali esclusivi. Il lavoro era relativamente semplice e veloce, in fondo avrebbe dovuto solo assicurare al dissidente che avrebbe avuto asilo politico in cambio di una firma, ma quello che doveva preparare per riuscire a portarlo a termine non era altrettanto facile. Si trattava di creare una vita intera e di renderla credibile persino per lei, perché se voleva che il suo obiettivo fosse convinto della sua storia, lei era la prima a doverla credere vera al cento per cento. “Conosci chi ti sta di fronte e potrai fargli credere ciò che vuoi” le era stato detto tanto di quel tempo prima che ormai faceva fatica a ricordarsi il volto della persona che lo aveva fatto, ma quella frase era ciò che le aveva permesso di diventare così brava e anche quella volta se la ripeté fino allo sfinimento, nel tentativo di assimilare al meglio quei caratteri che di certo il turco avrebbe dato per scontati e che non avrebbe faticato a credere verosimili. Per montare e ridefinire ogni aspetto del suo personaggio le bastò il tempo che l’auto impiegò per raggiungere il locale dove la stavano aspettando e quando mise piede fuori dalla vettura, seppe di non essere più se stessa ma di essere diventata la donna di cui i clienti avevano bisogno. Camminava in modo diverso, respirava in modo diverso e pensava in modo diverso, tanto che quando entrò nel locale e si vide riflessa nello specchio appeso alla parete dell’ingresso, avvertì la piacevole sensazione di osservare un’altra persona. Fingersi un’ambasciatrice era una pessima idea, non lo negava, ma le stava dando l’opportunità di provare qualcosa che non le capitava da secoli e che la riportava indietro nel tempo a quando ancora pensava che mentire in quel modo fosse divertente ed eccitante.

Stando alle istruzioni che le aveva dato il suo capo, i clienti e il dissidente turco la stavano aspettando nei salottini privati al secondo piano, perciò si addentrò nel locale passando a lato della pista da ballo. Era già stata in posti simili per altri incarichi – la città era piena di bar che servivano per nascondere le attività illegali dei proprietari – e dunque immaginava che tipo di clienti si fossero rivolti al grassone che l’aveva assunta, ma nonostante sapesse a cosa stesse andando incontro continuò a inoltrarsi in mezzo alla folla agitata da una musica assordante. Individuò quasi subito la porta che conduceva alle stanze dei piani superiori e non si fermò nemmeno davanti al tizio tutto muscoli messo a guardia dell’ingresso; una parola su chi fosse, uno sguardo deciso e si ritrovò a salire una scala stretta dietro a una ragazzina con la metà dei suoi anni e la metà dei vestiti.

Le fu facile capire chi fosse chi quando entrò nel salottino privato e si trovò davanti quattro uomini, due in completo nero stile gangster (i suoi clienti – il suo capo aveva seriamente un pessimo senso degli affari) e gli altri in tenuta informale, quasi trasandata come se fossero sopravvissuti a un lungo viaggio. Il dissidente turco era il più anziano dei due, quello dall’abbigliamento meno curato e lo riconobbe grazie al colore olivastro della pelle e alla lunga cicatrice che gli segnava lo zigomo sinistro. Le bastò uno sguardo mentre si accomodava per aggiustare il personaggio dell’ambasciatrice e far sì che rispecchiasse la donna che lui si aspettava.

Dell’altro non riuscì a farsi un’idea di chi fosse o di quanti anni potesse avere, anche perché se ne stava seduto su un divanetto con la testa appoggiata contro il muro e il volto coperto dal cappuccio della felpa; le fu chiaro solo che si trattava di una guardia del corpo, sicuramente armata.

«Ambasciatrice!» esultò il turco mentre la guardava sedersi dall’altro lato del tavolo. «Ho atteso tanto il suo arrivo»

«È sabato sera per tutti, signor Yassin» sorrise conciliante, approfittandone per controllare i documenti sparsi sul tavolo e la penna ancora perfettamente chiusa. Se il suo piano andava come previsto, presto sarebbe stato tutto finito. «E per quanto sia felice di aiutare un Combattente, ho anch’io una famiglia di cui occuparmi»

«Siamo uomini di parola» uno dei due in completo seguì i movimenti della ragazza. Ormai non aveva più dubbi su chi l’avesse chiamata. «Adesso possiamo concludere l’accordo»

«Conosce la causa per cui mi batto?» il dissidente si rivolse nuovamente alla ragazza, ignorando tutti gli altri presenti nella stanza.

Era la domanda che aspettava e che avrebbe messo in moto gli ingranaggi della falsa vita che si era costruita, anche se in parte aveva attinto da fatti e persone che esistevano realmente. Da quel momento in avanti doveva calcolare le parole e le azioni fin nel minimo dettaglio, altrimenti sarebbe saltato l’intero castello.

«Posso dire di essere sposata alla causa, anche se il mio ruolo e il mio Paese dovrebbero essere imparziali» si toccò l’anulare sinistro come se si fosse trattato di un gesto involontario e sovrappensiero. Non c’era nessun anello ma il turco doveva credere che ci fosse una promessa di riceverlo da qualcuno impegnato nella causa.

«I cuori degli uomini e delle donne non sono mai imparziali, ambasciatrice. Posso chiederle chi è il fratello nei suoi pensieri?»

«Un medico» la ragazza inclinò la testa, fingendo di arrossire per la vergogna di una rivelazione tanto intima a uno sconosciuto. «È partito per aiutare i bambini nel campo profughi sul confine orientale»

Era la mossa più rischiosa di tutto il piano, perché specificava un luogo e una persona che di certo il turco conosceva bene. Era poco più di un pettegolezzo su di un medico partito per proteggere i bambini sfollati e che lasciava in patria la propria compagna, molto probabilmente un’ambasciatrice importante. Se non fosse stato per un’immigrata turca incontrata nel palazzo gemello di quello in cui viveva lei, non avrebbe avuto nessuna base su cui costruire il personaggio e il lavoro si sarebbe rivelato decisamente più difficile.

Il turco sembrò non credere a quello che aveva appena detto; sul suo volto lesse dell’incredulità e percepì una crescente tensione che la mise in allarme. Anche gli uomini in completo si agitarono e si scambiarono quella che le parve un’occhiata insoddisfatta. Fu solo perché si concentrò sull’impassibilità dell’uomo sul divanetto che riuscì a recuperare la calma; se restava tranquilla anche solo una persona, lei aveva la possibilità di continuare con la recita che aveva architettato.

«Dio deve aver benedetto il mio cammino. Ho conosciuto quel medico e mi parlato della sua famiglia… Lei, ambasciatrice, è una donna benedetta»

Era fatta. Il suo piano aveva funzionato e finalmente avrebbe fatto firmare a quell’uomo ciò per cui era stata assunta, poi avrebbe aspettato i soldi che le dovevano e se ne sarebbe rientrata a casa, dove la aspettava ancora quella bottiglia di vino. L’adrenalina era finita, la sensazione di poter fallire era scomparsa non appena si era accorta che il turco si era bevuto ogni parola che aveva pronunciato, a ogni gesto che aveva intenzionalmente mimato. Era in parte rimasto il compiacimento per essere riuscita ancora una volta a far credere ciò che voleva a chi le stava di fronte, ma anche quello stava velocemente scivolando via insieme a tutto il resto. Il suo talento non stava sparendo e non aveva nemmeno bisogno di una vacanza; quello che le serviva erano stimoli e sfide come quella, ma il suo banale lavoro all’agenzia non avrebbe mai potuto dargliele ed era per quello che avrebbe continuato ad accettare tutti gli incarichi extra che il suo capo le proponeva.

Per far sì che il turco firmasse le restava solo una cosa da fare, perciò estrasse dalla tasca il passaporto trovato in macchina e glielo mostrò. Lui annuì e afferrò la penna, avvicinando tutti i documenti.

«Yassin, il medico non aveva anche una figlia piccola? Ti ricordi il nome?»

La ragazza spostò lo sguardo sull’uomo incappucciato seduto sul divanetto. Tutto era andato perfettamente fino a quel momento e se solo avesse continuato a starsene zitto, sarebbe potuta uscire da lì in poco tempo. Il primo pensiero fu di essere stata scoperta. Chiunque fosse quel tizio, la aveva sicuramente osservata sin da quando era entrata nella stanza ed era riuscito a capire che non era chi diceva di essere. Non avrebbe mai immaginato che la sua mania di essere credibile avesse potuto tradirla dopo averle dato l’impressione di essere riuscita a imbrogliare il turco così facilmente.

«Hai ragione!» l’uomo posò la penna nuovamente sul tavolo e sorrise alla ragazza. «Ricordo che sua figlia aveva un nome stupendo»

Per una come lei brancolare nel buio era una novità che, per quanto potesse servire per metterla alla prova e far vedere di cosa fosse capace, era capitata nel momento sbagliato. Non aveva idea di come avrebbe fatto a inventare il nome di una figlia di cui nemmeno sapeva l’esistenza e benché cercasse in ogni modo di ricordarsi parola per parola il discorso dell’immigrata turca, sapeva di dover tentare l’impossibile. Si rese conto che non importava se l’avessero scoperta o no; quello che doveva fare era mantenere la concentrazione per non far crollare la maschera del suo personaggio e fare attenzione a un uomo che prima non aveva stupidamente considerato. Si sentiva un topo in trappola ma se voleva uscire da lì, avrebbe dovuto continuare a mentire e le conveniva essere più convincente che mai, soprattutto perché un lavoro come il suo, benché avesse un numero spropositato di clienti, era mal tollerato da chiunque e la fine possibile se si veniva scoperti era una sola.

Posò con lentezza il passaporto sul tavolo. La prima regola era restare tranquilla e pensare sempre a come evolvere il personaggio per adattarlo alla situazione. Doveva diventare una madre che di sabato sera abbandonava la figlia per portare un passaporto a un dissidente, perciò serviva solo un comportamento leggermente diverso da quello di partenza. Non esisteva una madre del genere ma lei era lì, dunque doveva fare in modo che tutto andasse liscio come l’olio.

«Lei è la mia luce. Fatico a starle lontana» confessò, guardando dritto negli occhi Yassin nella speranza che vi leggesse la disperazione di una madre. «È ancora così piccola» se quella recita fosse andata storta, né lei né il suo capo sarebbero arrivati indenni al mattino successivo, perciò le conveniva finirla lì e non aggiungere nient’altro.

«La piccola luce deve avere un nome, no?» non fu l’uomo incappucciato ma il signor Yassin a insistere.

«Perché non firma?» il cliente in completo tornò all’attacco e per una volta la ragazza apprezzò l’iniziativa di chi le stava attorno. «Così noi potremo concludere il nostro affare e lasciare che l’ambasciatrice torni a casa»

«Mi dica il nome della sua bambina, ambasciatrice. È una questione di fiducia e io non tratto bene le persone di cui non mi fido»

L’uomo sul divano si alzò e si avvicinò al dissidente turco. Per un attimo temette il peggio, vedendo che la bocca appena visibile sotto il cappuccio si avvicinava all’orecchio dell’altro, ma lei non era incline a darsi per vinta almeno fino a che non si fosse ritrovata con le spalle al muro, perciò aspettò di vedere cosa sarebbe successo. Si stupì quando si accorse che era la stessa sensazione provata mentre si chiedeva perché non avesse lasciato a se stesso il chiacchierone incontrato la sera prima nel locale sperduto chissà dove nella periferia di quella città. Anche quella figura incappucciata le suscitava le stesse emozioni di attesa e curiosità che non riusciva a decifrare, esattamente le stesse che poi l’avevano spinta a precipitarsi fuori dal locale per restituire allo sconosciuto il resto e il biglietto da visita. Era il momento sbagliato per pensare a una cosa simile, ma si ricordò che quel pezzettino di carta rettangolare doveva trovarsi ancora nella tasca della sua giacca e per una qualche ragione, focalizzò la propria attenzione sulla parola stampata sul retro. Ne vide le lettere, le disegnò nella sua testa tratto dopo tratto mentre fissava il profilo nero del cappuccio della felpa, decidendo di ignorare tutte le precauzioni che avrebbe dovuto prendere in una situazione simile per riuscire a restare nel suo personaggio.

I due uomini in completo si agitarono e quello più vicino alla ragazza la fissò di sbieco. Non sarebbe riuscita a scappare tanto in fretta e il suo capo si sarebbe ritrovato appeso per i piedi forse per l’ultima volta in vita sua. Quella volta, il suo essere melodrammatico avrebbe avuto un perché più che valido.

«Si chiama Eke» sorrise sia all’uomo incappucciato sia a quello più anziano. Pensando a quel biglietto si era distratta quel tanto che bastava per riuscire a ricordare tutta la storia dell’immigrata turca e trovare il momento preciso in cui parlava della famiglia del medico. Aveva parlato di un figlio, o di una figlia, e aveva pronunciato il suo nome una sola volta ma per lei era più che sufficiente.

Ci fu un attimo di silenzio assoluto, in cui i respiri di tutti si fermarono nell’attesa di capire cosa sarebbe successo e in cui anche la musica proveniente dal piano di sotto sembrò sparire, ma poi l’uomo incappucciato si allontanò dall’orecchio di Yassin, gli tolse la penna di mano e firmò tutti i fogli con un gesto rapido e secco.

I clienti furono più sorpresi della ragazza di fronte a quell’imprevisto, tanto che si guardarono e sui loro volti lessero lo stesso pensiero di non sapere cosa stesse accadendo; lei, per quello che la riguardava, era sollevata che tutto fosse andato come sperava e se si fosse trovata da sola, sarebbe scoppiata a ridere. Quegli uomini non avevano nemmeno idea di chi fosse il dissidente turco e chiedevano a lei di essere un’ambasciatrice convincente.

«Credo che l’ambasciatrice possa andare a casa ora» se non avesse avuto il volto coperto, la ragazza avrebbe potuto certamente vedere un sorriso di scherno. Di certo, era appena stata giudicata come una pessima madre ma non le importava più, non ora che poteva finalmente tornarsene a casa e finire quello che aveva iniziato.

Era quasi alla porta, dava già le spalle ai quattro uomini, quando si fermò e li sentì parlare di cambiare stanza per approfittare degli altri servizi che il locale offriva. In particolare, fu la voce dell’uomo con il cappuccio a terrorizzarla tanto da paralizzarle le gambe. Quella serata era partita con il piede sbagliato e lo sapeva che sarebbe finita storta solo per il modo in cui era arrivata fino a quel punto, ma quanto male sarebbe andata era qualcosa su cui non aveva riflettuto.

«Non credevo che il lutto e i funerali durassero così poco»

Qualcuno chiese il perché di quella frase ma a lei fu chiara fin da subito. Il medico era morto e se lei fosse stata davvero chi diceva di essere non si sarebbe dovuta trovare lì, ma sarebbe rimasta a casa con la figlia o sarebbe corsa dovunque si trovasse il corpo dell’uomo che amava. Sapeva persino lei quale comportamento sarebbe stato giusto avere in una situazione del genere e capì che il suo personaggio si era sciolto come un burattino di cera non appena aveva giocato le sue carte. Pensò per tutto il tempo al perché avesse commesso un errore di quel tipo; da quando scese le scale guidata dalla stessa ragazzina semi-nuda a quando si risiedette nella macchina che l’aveva accompagnata lì e che la stava portando verso la periferia, si chiese quanto tempo avrebbero fatto passare i suoi clienti o gli uomini del dissidente turco prima di andare a prenderla e farle pagare il fatto di essere una bugiarda. La sola cosa di cui non dubitò fu che, se voleva sperare di restare viva, le restava solo un’alternativa: doveva fare le valige e sparire.

Lost somewhere – Capitolo 2

Capitolo 1

Il lavoro era sempre stato stancante, ma lo era in maniera quasi insopportabile il sabato mattina, quando si trovava faccia a faccia per due ore consecutive con una crocerossina che la credeva un’orfana bisognosa di aiuto. Ormai erano due mesi che portava avanti quella recita e stava quasi iniziando a stancarsi di fingersi così disperata da aver bisogno che una donna di mezz’età con la sindrome da Madre Teresa le portasse da mangiare e si prendesse cura di lei. Ma se serviva per appagare i suoi desideri, allora sarebbe stata al gioco ancora per un po’, quanto meno fino a quando la donna avesse continuato a pagare la società per la quale lavorava.

Ciò che rendeva quelle due ore difficili da sopportare era la poca inventiva che la crocerossina le lasciava. Non aveva problemi quando i clienti le permettevano di dare libero sfogo alla fantasia e assecondavano gli slanci e gli imprevisti che le sue bugie creavano, anche perché in quel modo riusciva a tenere la situazione sotto controllo, ma il sabato era lei a dover seguire un copione senza avere la possibilità di improvvisare e questo la metteva in agitazione. Non le piacevano le sorprese e la crocerossina cercava sempre di stupirla, inventando situazioni sempre diverse ma che sfociavano sempre nello stesso cliché. Si trattava di una storia banale, dove lei finiva per recitare la parte della cenerentola assoggettata a una rigida ma benevola matrigna.

A parte le due ore della mattina, però, quello che rendeva il sabato il giorno lavorativo peggiore dell’intera settimana era la riunione con i colleghi, che si prolungava dall’ora di pranzo fino a sera inoltrata senza darle la possibilità di andarsene prima. In un lavoro come il suo era di vitale importanza conoscere i clienti con cui si aveva a che fare, i loro gusti, quello che desideravano e il carattere che si aspettavano avesse il personaggio per il quale stavano pagando fior di soldi, perciò di sabato tutti i dipendenti ricevevano l’elenco dei lavori da svolgere la settimana successiva e dovevano immedesimarsi in tutti i ruoli che erano stati richiesti. Lei lo trovava una perdita di tempo, soprattutto perché riusciva a capire come comportarsi solo guardando chi le stava di fronte e non certo leggendo una stupidissima e impersonale scheda precompilata e su cui i clienti segnavano delle crocette per dire “Questo mi piace” o “Questo non mi piace”. Per lei era inutile perciò, se le riusciva, il sabato pomeriggio, quando la crocerossina se ne andava felice e in pace con se stessa per aver aiutato una povera orfanella, lo passava in uno degli studi deserti della sede a impersonare quei due o tre personaggi che i suoi clienti fissi tanto adoravano. Da sola non era divertente ma le serviva per avere una paga e tanti extra alla fine del mese.

Quel sabato era iniziato nello stesso modo e persino Madre Teresa non si era allontanata troppo dalla versione della storia che aveva proposto nell’ultimo incontro, quindi era riuscita a sopportare un po’ di più la mania di controllo della cliente e poteva ritenersi abbastanza soddisfatta per averle dato quello che desiderava ed essersi assicurata anche per quella volta una cospicua mancia. Le ore erano scivolate le une dietro le altre senza intoppi fino a sera, quando si era di nuovo diretta verso casa, e nulla sembrava ricordarle l’incontro della notte prima né il fatto che non fosse più stata in grado di ritrovare il bar in cui si era rintanata tutte le sere per una settimana. Non ci aveva pensato nemmeno così spesso come si era immaginata; ne era rimasta sorpresa ma non andava oltre e lei non era certo il tipo da perdere il sonno rimuginando su qualcosa fuori dall’ordinario. Aveva già avuto una cospicua dose di incontri strani in vita sua e non era disposta a prendere sul serio anche un chiacchierone conosciuto per caso e che non avrebbe di certo rivisto.

Casa sua, il buco che avrebbe offeso la parola “appartamento” se così fosse stato definito, si trovava fuori città, a circa un’ora di metrò dalla periferia, in un complesso nascosto tra delle fabbriche tessili che non funzionavano più da anni. Gliel’aveva trovato il suo capo, dicendole che quel posto era il più adatto per una come lei che era abituata a sparire quando le acque si agitavano (in realtà al suo capo faceva comodo che lei non si facesse vedere più di tanto nei quartieri vicini al centro, almeno era certo che l’Agenzia del Lavoro non sarebbe mai andata a chiederle i documenti necessari per essere in regola), e nonostante avesse una buona paga, non si era mai posta il problema di cercarsi una casa più grande o in un posto migliore. Stava bene anche lì e dopo che si era abituata alla presenza invisibile dell’inquilino del piano terra, non le sembrava più il caso di chiedere al suo capo di trovarle una casa che facesse meno schifo o che avesse almeno l’acqua calda per più di quattro ore al giorno. Non ci restava mai così a lungo.

Mise piede nel palazzo e come tutte le volte in cui entrava o usciva, avvertì immediatamente lo sguardo viscido del suo unico vicino squadrarla attraverso lo spioncino. Per i primi tempi si era sentita a disagio, come se qualcuno l’avesse messa in un vetrino e osservata a un microscopio, ma poi aveva smesso di pensarci. Se ne accorgeva, la pelle delle braccia e del collo le diventava elettrica e doveva combattere con tutta se stessa contro l’impulso di guardarsi attorno, ma aveva deciso di smettere di preoccuparsene almeno nel tratto di strada tra il pianerottolo al piano terra e la fine della rampa di scale al terzo piano.

Mantenendo sotto controllo l’impulso di voltarsi verso la porta annerita dietro la quale sapeva esserci il vicino, salì con calma i gradini cigolanti e solo dopo che fu entrata in casa ed ebbe chiuso la porta a doppia mandata, si concesse un veloce sospiro colmo di sollievo.

Era sollevata che fosse sabato sera, che l’inquilino si fosse limitato a osservarla dallo spioncino e non l’avesse seguita su per le scale e che fosse finalmente libera di essere se stessa. Era stancante fingersi qualcun altro per tutte quelle ore e nell’ultimo mese faceva sempre più fatica a inventare delle menzogne che suonassero convincenti. Non aveva certo paura che il suo talento stesse sparendo, quello era impossibile, ma cominciava a dubitare che fosse poi così infallibile come aveva sempre creduto o che avesse bisogno di un periodo di riposo per ricaricare le batterie.

Fece partire la segreteria telefonica. I primi messaggi erano offerte di lavoro da parte di alcuni clienti che aveva conosciuto tramite l’agenzia e che puntavano solo a una cosa. Lei era una bugiarda e l’avrebbero pagata per quello, non certo perché era stata a letto con loro. Mentre le voci di diversi uomini ripetevano la stessa richiesta in modi diversi, prese un bicchiere e la bottiglia di vino ancora chiusa che le aveva regalato il suo capo e si trascinò in bagno, iniziando a far scorrere l’acqua nella vasca. Le venne quasi da ridere quando una di quelle voci si mise a supplicarla di accettare l’incarico e accompagnarla a una festa tra vecchi compagni di scuola. Avrebbe dovuto fingersi la moglie di un piccolo impiegato che aveva mentito pur di conservare la faccia con persone che non incontrava da anni. Non era nel suo stile e se lavorava in proprio voleva un ruolo degno delle sue capacità, non quello di una docile mogliettina tutta casa e volontariato.

Si versò da bere. Il vino color rubino riempì in un attimo il bicchiere ma lei lo svuotò altrettanto in fretta, lasciando che il suo sapore fruttato le avvolgesse la bocca e le scaldasse un po’ il corpo. Non aveva niente a che vedere con la birra servita in quel bar dimenticato da dio, oltre che da eventuali clienti. Si chiese se quell’uomo l’avesse cercata o se si fosse seduto di nuovo a quel bancone nella speranza di vederla entrare; non che le importasse o che sperasse in chissà quale rivelazione, ma certi pensieri a volte le facevano sentire meno la solitudine.

Continuò a bere anche mentre ne se stava distesa nella vasca da bagno, immersa in una nuvola di schiuma e con un orecchio attento alla segreteria telefonica. Non aveva chiamato nessuno di interessante, nessuno per cui valesse la pena uscire di sabato sera e solo l’ultimo messaggio vocale si rivelò di una qualche utilità. La stupì veramente poco scoprire che il suo capo aveva bisogno di lei per un cliente che aveva chiamato all’ultimo minuto e che lei era la sola che potesse svolgere un incarico simile. Fu tentata di non dargli ascolto, di fingere di avere altro da fare dicendosi che avrebbe rabbonito il suo capo inventandosi una banale scusa come quella di non aver ricevuto il messaggio, ma le parole “Settimana libera” e “Paga triplicata” la convinsero che valesse la pena richiamarlo e sentire cosa le sarebbe toccato fare quella volta.


 

Nel progetto originario Lost somewhere era un titolo provvisorio solo per la prima parte della storia (Lost somewhere) e non dell’intero racconto e doveva essere un capitolo auto-conclusivo… Però c’è ancora molto da dire e da scoprire sulla ragazza, quindi cercherò di continuarlo e di arrivare alla fine insieme a voi (!), lasciando come titolo quello del primo racconto.