Storytelling Chronicles #22

Buongiorno e buon sabato!

Ebbene sì, questa settimana pubblicazione eccezionale nel weekend per partecipare anche questo mese alla rubrica di scrittura creativa della Storytelling Chronicles! Come ormai saprete, ma che ci tengo a ricordare, la rubrica è stata creata da Lara di La Nicchia Letteraria e il banner grafico è stato realizzato da Tania di My Crea Bookish Kingdom ❤︎

Il tema di questo mese prevedeva di scrivere un racconto come one shot, vale a dire una storia con un inizio e una fine ben definiti, senza cliffhanger di sorta o rimandi a future riapparizioni per concludere gli eventi raccontati. Quindi, perché quest’idea di racconto mi è un po’ difficile da portare avanti di solito, ho pensato di concludere la storia di Audrey & Nate iniziata lo scorso mese nel racconto Starcreek High! Diciamo che le cose sono andate un po’ in modo imprevedibile… Però giuro che il finale è un vero finale!

Buona lettura!

Fino all’ultimo respiro

Marcio avanti e indietro nella sala d’attesa dell’ospedale, in ansia come non lo sono mai stata.
La mamma di Nate è ancora attaccata al cellulare con non so quale chirurgo ortopedico, mentre suo padre se ne sta seduto nella zona d’attesa. Non ho mai visto Fred Coleman sbiancare in vita mia, mentre adesso un cadavere sarebbe più colorito e roseo della sua faccia. Lui era alla partita, l’infortunio lo ha visto con i propri occhi.
Io ho guardato i video che hanno postato tutti gli studenti della nostra scuola… e quelli dell’altra. Perché che due giocatori della stessa squadra si siano pestati in campo durante la finale regionale è tanto assurdo da dover essere registrato e condiviso da chiunque!
Mi si è stretto lo stomaco centinai di volte nel guardare la scena, anche senza sentire l’urlo straziante di Nate mentre Derryl gli ha affondato il piede sul ginocchio, girandolo in una posizione quasi impossibile. Adesso siamo bloccati in ospedale da due ore senza sapere come sta e come sta andando l’operazione.
«Non mi interessa se è l’equipe migliore dello Stato e lo stanno già operando» sbraita Mrs. Coleman al telefono, «io voglio che mio figlio sia seguito da lei! Deve alzare il culo da Boston e venire qui. Adesso!»
Al suo tono sussultiamo sia io sia suo marito, le cui mani tremano appena. Me ne sono accorta solo adesso e quando lui intercetta la direzione del mio sguardo abbozza un sorriso tirato, le dita che vanno a tamburellare sulla poltroncina accanto alla sua.
Lo raggiungo e mi siedo alla sua destra, gesto che lo porta a sorridere con gratitudine.
«Claire detesta restare con le mani in mano» mi spiega quasi come se il comportamento di sua moglie avesse bisogno di una giustificazione. «Ed è sempre stata molto protettiva con Nate.»
«La capisco, davvero. Se ci fossi io di là, mia mamma farebbe lo stesso.» La mia super mamma infermiera, che ha preso in carico Nate appena l’ambulanza lo ha portato qui. «Quando saprà qualcosa ci avviserà.»
Mr. Coleman annuisce, prima che i suoi occhi tornino a fissare il corridoio oltre il banco del reparto, vitrei e spenti. Se sua moglie strepita e grida, la sua calma glaciale dà i brividi. Ma li capisco, hanno solo Nate e negli ultimi due mesi in cui ci siamo frequentati ho visto quanto amano il figlio. Farebbero di tutto per lui.
Anche io lo farei e se non fosse più importante essere qui per quando si sveglierà, andrei a cercare Derryl. Non sono una persona violenta, ma quando è troppo è troppo. Quell’imbecille può aver compromesso il futuro di Nate e non lo perdonerò mai per ciò che gli ha fatto.
L’attesa è stressante, ma alla fine vedo mia mamma svoltare l’angolo. Ha un’espressione neutra, la maschera che tiene al lavoro ben in posizione anche se i suoi occhi mi parlano quando incrociano i miei. “Sarà dura” sembrano dire, “ma se la caverà”.
«Claire, Fred» li saluta mentre entrambi scattano sull’attenti e la assediano. Io resto un po’ più indietro ma non manca di rivolgermi un cenno. «Tesoro.»
«Joanne, come sta? È in sala operatoria?»
«Sta bene ed è appena rientrato in camera. Tra poco arriverà il chirurgo per aggiornarvi sull’operazione, ma sembra essere andato tutto per il meglio.» Mamma incrocia le braccia al petto e mi scocca un’occhiata veloce. «Ha chiesto di vedere subito Audrey. E di farvi sapere che non sporgerà denuncia contro Derryl.»
Vero, sua madre ha contattato chiunque poteva mentre venivamo qui e ha espresso quell’eventualità a Nate mentre la barella lo trasportava in mezzo al pronto soccorso. Non credevo l’avesse sentita ma deve essere così.
«Non ha senso!» esplode sua mamma, ma la mia è già pronta a chiamarsi fuori dal suo sfogo indignato alzando le mani.
«Ambasciator non porta pena, Claire» le ricorda con complicità, loro che erano amiche al liceo, per poi guardare me. «Vieni?»
Mi volto verso i genitori di Nate per chiedere loro il permesso e quando annuiscono, seguo la mamma lungo il corridoio, il suo sospiro tirato che mi coglie di sorpresa e un po’ mi allarma.
«Mamma?»
«Il suo ginocchio rischia grosso, tesoro.» Non ci gira attorno e la adoro per questo, anche se fa male sentirla parlare così. «Può guarire bene e farlo senza lasciare troppe conseguenze, però ci vuole tempo. Tanto, più di quello che potrebbe essergli concesso e che potrebbe accordarsi Nate stesso.»
«I dottori lo faranno ragionare» replico, consapevole che forse non basterà. «E anche Coach Baxter.»
«Spero tu abbia ragione, amore.» Mi abbraccia forte un attimo prima di lasciarmi davanti alla porta di Nate. «Sii forte, Audrey Pankhurst Johns, e convincilo a darti ascolto.»
Mi lascia sola e resto con più dubbi di prima perché Nate sa essere irremovibile quando si mette in testa qualcosa. E se mamma crede che debba convincerlo, allora non partiamo con il piede giusto. Mi faccio coraggio con un’ultima occhiata verso la schiena sempre più lontana della mamma, poi raddrizzo le spalle, inspiro ed entro.
La prima cosa che noto è l’impalcatura e la gabbia in cui sono bloccati il ginocchio e la gamba di Nate, poi arrivo al suo viso sfatto e scavato, la tristezza e la rabbia racchiuse nei suoi occhi scuri mentre mi osserva chiudermi la porta alle spalle.
«Quanto sta delirando mia madre?» chiede, le labbra che accennano un sorriso ma prive di qualsiasi allegria.
Fa male vederlo così, una stilettata dritta al mio cuore che lo fa sanguinare. Ma devo essere forte, da adesso in avanti, per tutti e due, soprattutto per Nate.
«Ha detto a un eminente chirurgo ortopedico di “Muovere il culo” e venire qui. Dà abbastanza l’idea?»
«Abbastanza, sì.» I suoi occhi scuri scivolano sul ginocchio bloccato per mezzo secondo. «Quanto è orribile?»
«Sai che non…» faccio per dire ma le sue iridi scure e ombrose mi inchiodano ai piedi del letto.
«Audrey, niente stronzate. La verità.»
Chiudo le palpebre e la tentazione di togliere gli occhiali per sfregarle con forza per l’irritazione è altissima. Non so neppure io perché sono irritata, tuttavia vedere Nate così è ingiusto. Come sentirlo parlare in questo modo.
«Avrai anche quasi diciotto anni, ma il linguaggio scurrile non ti si addice» mi sfugge quando torno a guardarlo, tuttavia il rumore secco che faccio con la sedia mentre la sposto per sedergli accanto gli impedisce di replicare. «Non è orribile, Nate, davvero. È difficile. Mia mamma dice che ti servirà tanto tempo.»
«Non ce l’ho, tanto tempo» dice, il veleno che stilla dalle sue parole come mai gli ho sentito fare. «Merda, è andato tutto a rotoli! Tutto!»
«Non dire così» lo rimprovero, le mie dita che gli stringono la mano per dargli sostegno. «Ti riprenderai e tornerai a giocare.»
«Un osservatore degli Harvard Crimson1 è venuto a parlarmi prima della partita» mi rivela mentre toglie la mano dalla mia e se le passa entrambe sul viso. «Sanno che ho fatto domanda lì e in altre due università, ma è venuto a dirmi che mi avrebbero offerto una buona borsa di studio e un posto da titolare in squadra sin da subito. Che avevo la lettera di ammissione già in tasca, che… che…»
La voce gli si pezza e lo vedo premere i palmi sugli occhi per nascondere le lacrime. Anche io piango, per il suo dolore, per le possibilità che in questo momento sente di aver perso a causa dell’infortunio. Mi fa male sapere di non poter alleviare il suo dolore, di non poter allontanare i pensieri negativi e dargli una speranza.
«Non sai se la ritireranno» azzardo, ma Nate mi fulmina nel giro di un millisecondo.
«Ha visto la rissa dagli spalti, Audrey» dice, lapidario. «Quando mi hanno portato via sulla barella, era al telefono. Con chi credi stesse parlando, Audrey? Con Babbo Natale, per chiedergli di regalarmi un ginocchio nuovo?»
La sua cattiveria mi spiazza e fa arrabbiare. «Non è con me che devi prendertela. Non te l’ho rotto io il ginocchio.»
Nate soffia mezza risata, un suono colmo di acredine. «Certo che no. Tu non fai o dici nulla che non sia giusto, vero? La specchiata Audrey Johns non sbaglia mai.»
Credo di fissarlo a bocca aperta, incredula e a corto di parole, perché le labbra di Nate si trasformano in un ghigno che mi fa venire i brividi. È irriconoscibile, il ragazzo che mi ha baciata e ha detto che saremmo rimasti insieme per sempre con la stessa bocca che adesso si apre per ferirmi. Non ne capisco il motivo, né lo riconosco.
«Nate, cosa…»
«Sai» mi zittisce, «questa volta invece è colpa tua, Audrey. Perché se non avessi fatto espellere me stesso e Derryl dalla squadra per difendere te, adesso staremmo entrambi festeggiando la vittoria. Non mi avrebbe preso a pugni davanti a tutti, convinto che avessi deciso di mandare all’aria la nostra scommessa per te.»
Mi gira la testa, le orecchie ronzano e il cuore batte troppo forte da non farmi capire cosa sta dicendo. Non ha davvero detto che… No, non è così meschino. Nate è stato il mio migliore amico e adesso è il mio ragazzo.
«Tu… Non è vero. Tu lo hai preso a pugni, tu… noi…»
«Io, io, io» mi fa il verso, meschino. «Che c’è, la grande Panky è rimasta senza parole? Tranquilla, le ho io per entrambi. Non è mai stato vero, l’essere il tuo ragazzo e le stronzate che ti ho rifilato negli ultimi mesi. Faceva tutto parte di una scommessa con quel cretino di Derryl. Solo che sono stato un po’ troppo credibile…»
Resto paralizzata per un secondo sulla sedia, convinta che sia tutto uno scherzo. Adesso scopro che sta straparlando per effetto dell’anestesia e che è tutta una bugia. Non è vero, non può esserlo.
Poi però arriva una piccola vocina a sussurrarmi che avrei dovuto saperlo. Dopo anni passati a ignorarmi, perché il meraviglioso Nate Coleman avrebbe dovuto ammettere di essere interessato a me? Era impossibile. Avrei dovuto capirlo. E sì che non sono stupida…
«Quando è iniziata?» Come riesco a tenere la voce ferma è un miracolo, ma non vacilla e ne sono grata. «Da quanto va avanti la tua farsa?»
Sottolineo l’evidenza ma vederlo sussultare appena davanti alla prova che per me è sempre stato tutto vero è una piccola soddisfazione. Una che però mi fa sprofondare il cuore nel petto.
«Sapevo già che ti avevano rotto gli occhiali dopo la scuola e che Derryl era finito col culo per terra. È lì che è nata la nostra scommessa. Dovevo uscire con te e poi piantarti davanti a tutti. Meglio, davanti a tutta la scuola durante le festa per la vittoria di oggi.»
«Ma sei stato così bravo a recitare che ci ha creduto anche il tuo amico» continuo da sola, atona. «Beh, Nate, se con il basket hai chiuso, puoi rifarti come attore. Ho creduto che fosse vero per tutto il tempo. Davvero, complimenti!»
Grondo sarcasmo, meglio questo che le lacrime che sento comunque pungermi gli occhi. Ho voglia di piangere, di cercare mia mamma o di chiamare Violet e urlare, per poi scoppiare in un pianto a dirotto mentre la mia migliore amica mi consola con un’infinità di minacce rivolte a Nate. Vorrei sparire seduta stante, sprofondare nella proverbiale voragine che però non si aprirà mai sotto i piedi di nessuno. Ma no, non accadrà; non crollerò davanti a un primate decerebrato che è stato e ancora è tutto il mio mondo.
Con la vista annebbiata mi alzo, una calma irreale che mi avvolge mentre ripongo la sedia e gli occhi mi scivolano sul ginocchio di Nate. Non ho più un cuore, lo ha appena fatto a pezzi il cretino sdraiato davanti a me, eppure il vuoto al centro del mio petto si contrae, addolorato per lui e le difficoltà a cui andrà incontro. Poi realizzo una cosa abbastanza ovvia.
«Per questo non vuoi denunciare Derryl, così lui non dirà della scommessa e i tuoi non sapranno che il loro adorato figlio è uno stronzo di prima categoria.» Non nega né conferma, però riesco a leggergli la verità in faccia. «E se fossi io a dirglielo?»
«Non lo faresti mai» obietta subito, ma c’è, giù nel profondo della sua sicurezza, una piccola scintilla di dubbio che gli fa posare gli occhi su di me. «Non lo farai.»
Più che esprimere sicurezza, però, la sua affermazione suona quasi una domanda. Vorrei davvero tanto lasciarlo con questo tarlo, andarmene senza una replica se non uno sguardo sprezzante e lasciargli il dubbio se dirò o no a suo padre e sua madre che tutto questo è accaduto per colpa dello stesso Nate. Tutta l’ansia, il dolore e la preoccupazione che stanno vivendo sono colpa sua e dovrebbero saperlo. Davvero, dovrebbero.
«Sono migliore di te» dico, un passo indietro verso la porta. «E il karma ti ha già dato la tua punizione, sembra. I tuoi genitori non meritano altro dolore. È solo per loro se non dirò nulla.»
Alla fine mi volto e copro il resto della distanza che mi separa dalla mia via di fuga. Sono Audrey Pankhurst Johns, porto il nome di una donna che ha fatto la storia e mi rifiuto di lasciare che Nate vada la distruzione che si è lasciato alle spalle. Perché non sono disposta a cadere davanti a lui, ma ciò non significa che non avverrà lo stesso.
Ma lo sento! Sento la sua maledetta voce che mi chiama e mi sfugge un singhiozzo. Perché sono a un passo dalla salvezza e mi fermo, la mano stretta attorno alla maniglia che trema, in attesa che lo ripeta di nuovo.
«Audrey, io… in bocca al lupo per l’ammissione alla Columbia2
«Va’ al diavolo, Nate.»
Esco senza attendere altro, i piedi che mi portano lontano dal ragazzo che mi ha cambiato la vita in ogni senso possibile. Non ricordo di passare davanti ai suoi, né di sentirli chiamare il mio nome; ho la testa che vacilla e il cuore pronto a scoppiarmi di dolore mentre attraverso l’ospedale e finisco per gettarmi tra le braccia della mamma.
Forse mi chiede cos’è successo, o perché piango e non riesco a smettere, però non ce la faccio a rispondere. Sento solo il vuoto al centro del petto e i singhiozzi che mi scavano l’anima. C’è posto solo per questo e per un pensiero che diventa una vera e propria ancora di salvezza.
Nate Coleman mi ha distrutta e lo odio per questo.
Odio Nate Coleman.
E continuerò a odiarlo fino al mio ultimo respiro.

1. Harvard Crimson è la squadra di basket della Harvard University, una delle università della Ivy League, cioè tra le più prestigiose degli Stati Uniti d’America, che gioca nella prima divisione della NCAA (National Collegiate Athletic Association), organizzazione che gestisce le attività sportive degli atleti iscritti ai programmi sportivi dei college e delle università negli Stati Uniti e in Canada.
2. La Columbia University di New York City, altra università appartenente alla Ivy League.

Devo dirvi che mi dispiace per questi due personaggi, ma il finale si è praticamente scritto da solo! Fatemi sapere come vi è sembrata questa storia e se avreste voluto andasse in modo diverso.

Federica 💋

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Storytelling Chronicles #21

Buongiorno e buon lunedì!

Anche per questo mese torna un nuovo racconto per la rubrica di scrittura creativa a cui partecipo da quasi due anni, la Storytelling Chronicles, ideata da Lara di La Nicchia Letteraria e con grafica di Tania di My Crea Bookish Kingdom! Questo mese i temi sono stati scelti a cascata dai/dalle partecipantə, vale a dire che ognuno di noi ha suggerito un tema il quale è stato poi sviluppato in un racconto dalla persona che ha commentato subito dopo.

Quindi il mio tema, suggerito da Lara, è stato: “storie d’amore ambientate a scuola. Ergo, ciò che avrei voluto affrontare nel prossimo racconto sarebbe stato un qualcosa dove il liceo e i sentimenti fossero i protagonisti indiscussi”.

Devo dire che è stata un po’ una faticaccia, infatti pubblico quasi allo scadere del mese! Però mi sono divertita e senza altri indugi mi presento Audrey e Nate!

Starcreek High

Mia mamma mi vuole morta.
Non c’è altra spiegazione che giustifichi perché mi trovo in casa del decerebrato più fastidioso di tutta la mia scuola a dargli ripetizioni di letteratura.
Un decerebrato che si finge tale. Nate non è stupido, anzi, e lo sappiamo tutti e due che nell’ultimo compito in classe ha fatto schifo solo perché ha passato le ultime due settimane a esplorare le tonsille di Candice Fergus.
Uno spettacolo che mi sarei risparmiata, se non avessi la sfortuna di abitare proprio nella casa accanto di colei la cui gola è stata oggetto di un tale puntiglioso studio. Ho provato a tener chiuse le tende quando sapevo esserci Nate nella casa dall’altra parte del vialetto ma – sfortuna ancor più grande – ho una memoria fotografica, il che rende ancora vivido nella mia mente il ricordo di quell’unica volta in cui li ho effettivamente visti.
Un’unica volta che mi ha condannato a questo strazio.
«Perciò Shakespeare, nei sonetti, vuole raccontare del destino dello scrittore, soggetto al volere del committente e della musa, la cui figura può essere sia benevola che cattiva, a seconda di quanto elargisce.»
«Di cosa?» mi domanda svogliato, la testa appoggiata sul palmo mentre mi osserva con un mezzo ghigno fastidioso.
«Cosa “Di cosa”?»
Il ghigno di Nate diventa completo, come se fossi caduta in una trappola che vede solo lui. Si raddrizza e trascina la sedia ancor di più sotto al tavolo della cucina. Il mio ginocchio si scontra con il suo, cosa che sembra divertirlo. Si piega verso di me e mi scruta dall’alto della sua statura da promessa del basket.
«Che cosa elargisce la musa?»
Tiene la voce bassa, come se fossimo solo noi due in un luogo tutto nostro. Sì, ok, siamo effettivamente soli, perché i suoi lavorano tutto il giorno e ha spedito la governante chissà dove non appena mi ha fatta accomodare in casa. Però mi sta provocando con i suoi modi rilassati e filtranti.
E no, io a questa provocazione non posso non rispondere.
Gli scocco un sorriso timido, abbassando appena le palpebre per guardarlo da sotto le ciglia. Come se fossi in imbarazzo davanti alle sue attenzioni. Poi, quando meno se lo aspetta, gli copro la faccia con la mano e lo spingo indietro. In modo davvero poco elegante.
Nate strabuzza gli occhi. Sono sicura che nessuno l’abbia mai trattato così. Lui, la stella della Starcreek High, osannato dai ragazzi e cotta segreta delle ragazze sin da che gli ormoni ci rendono tutti “petulanti esemplari di stupidità umana” – parole di mio padre, non mie.
Sono stata compresa in quella categoria anche io, per un paio di settimane, durante la prima superiore. Perché anche io avevo una cotta segreta per Nate, che è meravigliosamente scomparsa quando mi ha definita una “Quattrocchi tutta pelle e ossa”. Lui non ha idea che l’ho sentito e a me sta bene così.
Soprattutto adesso che devo dargli ripetizioni.
«Primo: qualunque cosa ti passi per quel tuo cervello da primate non troppo evoluto, dimenticatela» esordisco per poi puntare l’indice sul libro aperto che campeggia tra noi. «Secondo: la musa elargisce favori, vale a dire…» Gli tiro un piccolo calcio nello stinco per farlo smettere di sogghignare ed è un piacere sentirlo gemere di dolore. «Vale a dire, che dispensa ispirazione, in diversi gradi e modi.»
«Come tu dispensi punizioni?»
Sorrido. «Ma bravo, Nate! Allora non sei tutto muscoli e niente cervello.»
«Ah, Panky così mi offendi.»
«Non chiamarmi così» sibilo, abbassando lo sguardo sul libro.
Ovviamente, Nate conosce il mio scomodo secondo nome. Audrey Pankhurst1 Johns, così hanno pensato bene di chiamarmi i miei genitori, e adoro il fatto che entrambi i miei nomi derivino da due donne che hanno fatto la storia. Davvero, lo adoro. Ma non quando quest’essere lo usa per prendermi in giro, visto a cosa allude2.
«Perché? Da piccoli lo adoravi.»
Giusto. Nate è anche il mio ex credevo-fossi-il-mio-migliore-amico, il ragazzino che mi ha fatto da spalla e da complice fino alla quinta elementare e poi si è trasformato in un adolescente figo che non aveva più tempo da perdere con me, l’amichetta quattrocchi tutta da compatire.
«Sì. Prima che scoprissimo che i bambini non li porta la cicogna, né nascono sotto i cavoli.»
«Cioè prima che scoprissimo 16 and Pregnant» puntualizza sempre con il suo mezzo ghigno.
«È lo stesso.» Mi sistemo gli occhiali sul naso e torno a sfogliare il libro. «Allora, se guardiamo la numerazione possiamo vedere che…»
«Da quando sei diventata una copia di Mrs Morton?» chiede sporgendosi in avanti proprio per rubarmi gli occhiali.
«Nate! Ridammeli!» Scatto in piedi per allungarmi più facilmente verso di lui ma non sono la sola, e lui con la sua maledetta altezza si guarda bene dal tenerli alla mia portata. «Scimmia decerebrata che non sei altro! Ridammi gli occhiali!»
Sghignazza, ma lo sento solo perché sono cieca quasi come una talpa e non distinguo la sua sagoma dal resto della cucina. Vedo delle forme sfuocate e non lo faccio di proposito, ma un singhiozzo mi chiude la gola. Sbatto più volte le palpebre per scacciare le lacrime che mi hanno riempito gli occhi. Non voglio piangere, non davanti a lui, ma perché mi ha portato via proprio gli occhiali? Perché non si è limitato a chiamarmi Panky e a prendermi in giro come prima?
Perché si è comportato esattamente come i suoi stupidi amici?
Chiudo gli occhi perché altrimenti piango davvero, mentre mi rendo conto che Nate ha smesso di ridere. Magari se n’è anche andato, perché non lo trova così divertente darmi il tormento. Sarebbe troppo bello per essere vero.
Infatti sento che sbuffa, però un secondo dopo le sue mani calde mi spostano i capelli per trovare le orecchie e infilare le bacchette con un movimento goffo.
«Quante storie per un paio di occhiali.»
Resto di sasso, mentre un paio di lacrime alla fine riescono a sfuggirmi lungo le guance. Mi decido a riaprire le palpebre con il cuore che batte per l’ansia e per fortuna adesso vedo tutto alla perfezione, compresa l’espressione buia di Nate. È di nuovo seduto al tavolo, le dita che giocherellano con una matita mentre tieni gli occhi puntati sulle pagine del libro.
È il ritratto dell’indifferenza, una visione che mi stringe lo stomaco e scatena un nuovo singhiozzo. Ovviamente se ne accorge e quando punta su di me i suoi occhi scuri mi sento piccola come una mocciosa. Settimana scorsa, all’uscita da scuola, il suo gruppo di amici mi hai riservato lo stesso trattamento, finendo per rompermi gli occhiali e costringendomi a comprarne un paio nuovo, e che adesso lui mi rifili quest’occhiata quasi infastidita riapre una ferita che pensavo di aver ricucito.
Non che lui lo sappia, visto che era impegnato a esplorare le tonsille di Candice con tale dedizione.
«Non sono solo un paio di occhiali» lo scimmiotto. «Senza non ci vedo, stupido imbecille.»
«Era uno scherzo, Audrey!» si giustifica, offeso e anche infastidito. «Dai, non è morto nessuno. Siediti e calmati, così puoi finirmi di spiegare la divisione in due blocchi dei sonetti di Shakespeare.»
L’ho detto che Nate non è davvero stupido. Altrimenti non saprebbe già quello che io in teoria dovrei spiegargli… Quindi perché sono qui?
«Deve essere divertente, vero?» Domanda retorica e se ne rende conto perché non mi chiede di cosa parlo. «Te l’ha Derryl di togliermeli? O sono stati i figli di Coach Wayne?»
Nate mi scocca occhiata spaesata. «Perché avrebbero dovuto? È successo qualcosa?»
Mi affretto a raccogliere le mie cose, testa bassa e sguardo puntato sul tavolo perché non voglio vedere la certezza che sa di cosa parlo stampata sul suo viso. Non gli credo, non può non saperlo visto che sia Derryl sia Sharon e Jimmy Wayne fanno parte del suo gruppetto di amici.
«Chissà che risate quando glielo racconterai! Audrey la Quattrocchi che va in crisi perché le si tolgono gli occhiali.»
«Non so di che blateri!»
«Molto bene. Visto che blatero, me ne vado a casa.»
Mi allontano dalla cucina con i suoi passi alle calcagna. So già che mi prenderà perché più alto e più veloce, però resto comunque sorpresa e infastidita quando mi si para davanti per bloccarmi. Resta fissarmi per un secondo, arrabbiato quanto me per quello che è successo in questi pochi minuti. Poi il suo viso diventa ancora più scuro. «Ti hanno fatto qualcosa?»
«Come se al magnifico e osannato Nate Coleman importasse.» Gli punto l’indice contro il petto con forza, per dargli fastidio, per fagli anche solo un pochino male quanto ne ha fatto lui a me con il suo “Era solo uno scherzo”. «So che ti sto antipatica, che sono solo una quattrocchi pelle e ossa, ma se sei mai stato davvero mio amico, evita di prendermi per il culo!»
Deve restare veramente di stucco, perché riesco ad andarmene da casa sua senza che aggiunga nient’altro. Sapevo che sarebbe andata a finire male, perché quando c’è di mezzo Nate, niente nella mia vita gira per il verso giusto!

* * *

«Hai sentito?»
Violet, la mia migliore amica e quella che sa praticamente tutto di me, si siede sulle gradinate vuote lasciandosi andare di peso. Ha gli occhi che brillano come un bambino a Natale, segno che deve essere successo qualcosa di catastrofico a una delle cheerleader o a quelle del gruppetto di Sharon Wayne. Sinceramente non sono dell’umore giusto per sentir parlare di loro, nemmeno dopo due giorni passati a ignorare tutto ciò che a che fare con Nate. Due giorni passati anche a cambiare strada ogni volta che rischiavo di incrociarlo nei corridoi.

Se n’è accorto di sicuro, anche perché ho sentito i suoi amici farglielo notare diverse volte, ma non mi interessa. Questa volta ho veramente chiuso con tutto ciò che riguarda lui e chi gli sta attorno.
Ecco perché me ne sto seduta sulle gradinate della palestra nell’unico giorno in cui la squadra non ha allenamenti. Qui si che posso starmene da sola senza dover per forza imbattermi in qualcosa che lo riguardi.
«Se è coinvolto il primate innominabile, non mi interessa.»
Torno a guardare il libro di letteratura ma Violet ha ben altri programmi. Nemmeno riesco a protestare quando me lo strappa di mano e lo lancia ai suoi piedi senza troppi complimenti.
«Questo devi saperlo! L’intera scuola è in fermento.»
«Perché? Hanno finalmente scoperto che Candice si è rifatta le tette?»
Triste ma vero. A sedici anni la mia vicina di casa è già schiava della chirurgia plastica ma Violet scuote la testa.
«Sarebbe bello, ma no. Non è ancora giunta l’ora del suo declino.» Mi stringe entrambe le mani tra le sue e mi obbliga a girarmi verso di lei. «Nate Coleman ha fatto a pugni con Derryl Evans.»
«Cosa?»
Un piccolo brivido mi scuote dalla testa ai piedi. No, Nate non ho fatto nulla per mettere in crisi la sua amicizia con Derryl. È solo una stupida diceria a cui ovviamente Violet ha subito creduto.
«Giuro! Kathy Riley lo ha detto a mezzo secondo anno e lo ha saputo da una fonte super affidabile.»
Matt Riley. «Il migliore amico di Nate.»
«Tombola, Pankhurst!»
Lei è la sola persona che riesce a non far sembrare ridicolo il mio secondo nome. È anche l’unica a cui permetto di usarlo.
«E questo perché dovrebbe interessarmi?» Fingo di non volerlo sapere, e lo faccio anche spudoratamente. Fingere è sempre la soluzione migliore quando non voglio far sapere a Violet di avere un punto debole.
«Perché secondo Kathy, a detta di tutti quelli del secondo anno, Nate e Derryl hanno litigato perché Evans ha fatto lo stronzo con una certa persona.»
«Non me.»
«Sì, Panky.»
Non è Violet a rispondermi, ma la voce bassa di Nate alle mie spalle. La mia “amica”, perché da oggi verrà degradata senza possibilità di appello, sorride come un gatto col topo e adesso capisco che tutta la sua fretta per farmi voltare serviva a distrarmi.
Diventa però chiarissimo quando Nate si rivolge direttamente a lei. «Grazie, Goodwill. Ti devo un favore.»
«Ci conto, Coleman.» Mi abbraccia forte e poi inizia a scendere le gradinate. «Buono studio, Pankhurst!»
«Non ti aiuto più con chimica» le urlo dietro.
«Sì che lo farai!» grida di rimando e io alla fine sorrido.
Perché sì, nonostante la minaccia, l’aiuterò comunque per superare la verifica di chimica.
«Audrey.»
Giusto, non mi sono ancora voltata verso Nate! Inspiro per farmi coraggio e come un condannato mi giro per affrontare il ragazzo che è stato la mia cotta segreta forse per un po’ più di due settimane. Vedergli un occhio nero mi fa abbastanza impressione.
«Santo Cielo, Nate! Che hai fatto all’occhio?»
«È frutto dell’unico pugno che Derryl è riuscito a mandare a segno.»
«Ti fa male?»
Ok, ho detto che non mi interessa e che non avrei più voluto avere niente a che fare con lui. Ma quell’occhio sembra davvero doloroso.
«Non tanto» minimizza con un sorriso sghembo.
Dopo un attimo di esitazione si siede accanto a me, le gambe rannicchiate nello spazio tra una fila e l’altra mentre la sua statura lo fa sembrare un gigante su una sedia per bambini, nonostante le gradinate siano spaziose.
«Ho saputo che ti hanno rotto gli occhiali» dice allungandosi con le braccia all’indietro, lo sguardo puntato sul campo più in basso.
«Sì, la settimana scorsa. Poco prima dell’esame di letteratura.» Inutile negare, quando i responsabili hanno già confessato.
«Sono stati degli imbecilli.» Si sfiora lo zigomo con la mano e sussulta quando le dita raggiungono l’orbita scura. «Coach Baxter ha sospeso entrambi dalla squadra.»
«Stai scherzando, vero?»
Sono indignata. La nostra non sarà una grande cittadina ma qui il basket è praticamente una seconda religione. Tutti, anche chi non segue lo sport come la sottoscritta, sanno che settimana prossima ci saranno i play-off del torneo e che la nostra squadra era la favorita proprio perché ci sarebbe stato Nate. E sì, anche quel cretino di Derryl Evans.
«No. Mi perderò la partita e di sicuro diversi osservatori della NCAA3
«Oh, Nate, mi dispiace.»
«A me no.» Si stringe nelle spalle. «E anche Coach Baxter ha detto che ho fatto bene a dargli una lezione. Solo non è contento che lo abbia fatto così vicino ai play-off.»
«Ci credo! Avresti dovuto pensarci prima di comportarti da troglodita!»
«Sei seria?» Scuote la testa in risposta alla mia ramanzina. «Mi faccio cacciare dalla squadra dopo aver fatto a pugni con un mio compagno per quello che ha fatto a te, e tu mi rimproveri di essermi comportato da troglodita?»
«Perché lo sei stato!» mi difendo, diventando però rossa in viso perché non sono poi così disinteressata a quello che ha fatto. «Siamo nel Ventunesimo secolo! Alle ragazze non serve più essere protette dal “maschio alfa”. Hai dato per scontato che non mi fossi difesa da sola.»
«Ti hanno rotto gli occhiali e l’altro giorno a casa mia sei quasi scoppiata a piangere a dirotto solo perché te li ho tolti. Scusa se ho pensato fossi la vittima di un bullo idiota.»
«Primo: li hanno rotti solo perché mi hanno presa alla sprovvista mentre uscivo da scuola. Evans non ti ho detto che gli ho fatto scendere le scale in cemento con il fondoschiena?»
La mia domanda lo sorprende e non poco. «Davvero?»
Annuisco, sollevando tre dita. «Terzo anno di autodifesa. Direi che me la cavo anche da sola contro i bulli.»
«A saperlo non mi sarei fatto espellere dalla squadra» quasi mugugna ma sta sorridendo. «E il secondo motivo?»
«Quale secondo motivo?»
Nate sfodera quel suo mezzo sorrisetto che lo rende il ragazzo più bello che abbia mai incontrato. «Se non lo sai tu che hai detto “Primo” e poi mi hai rivelato essere la versione femminile di Bruce Lee.»
«Ah, sì.» Perché sono scoppiata a piangere a casa sua. «Secondo: ho pianto perché…»
«Sì?»
«Perché sei scemo, ma non cattivo come Derryl. Perciò quando mi hai preso gli occhiali sono andata leggermente in crisi.»
«Leggermente?» Solleva un sopracciglio ma subito lo abbassa con una smorfia per il dolore. «Eri in crisi nera come il primo giorno di elementari, quando Paul Shiver ti ha tirato il fango nei capelli.»
«Come accidenti fai a ricordartelo?»
«Ho una buona memoria.» Si stringe di nuovo nelle spalle. «Sai, adesso che metà della squadra non mi rivolge la parola potrei aver bisogno di una nuova, vecchia, amica.»
«Dovrei essere io?»
«Se ti va. Oppure potremmo saltare l’essere amici e potresti diventare direttamente la mia ragazza.»
Mi strozzo con la mia stessa saliva e vado avanti a tossire diversi minuti prima di capire che è incredibilmente serio.
«Ti sei per caso preso una commozione celebrale? O hai un disturbo della personalità?»
«No, Audrey Pankhurst Johns. Mi piaci da quando ho atterrato Shiver nel fango all’età di sei anni, solo perché ti aveva colpita per sbaglio.»
«Non per fare la guastafeste e rovinare questa meravigliosa dichiarazione» la prendo larga anche se ho il cuore che mi batte a mille, «ma mi eviti come la peste da sette anni e fino a una settimana fa hai fatto le radiografie alle tonsille di Candice Fergus. Con la lingua.»
«È stato un incidente di percorso. Ed è successo una volta sola, cioè quando tu ci hai guardati dalla finestra di camera tua.»
«Non vi ho guardati! È stato un caso sfortunato.» Lo osservo di sottecchi e Nate si lascia scivolare in avanti sul sedile della gradinata, cosicché le nostre teste siano alla stessa altezza. «Davvero è successo una volta sola?»
«Te lo giuro. E per la cosa dell’ignorarti, era autoconservazione.»
«Autoconservazione? Come no…»
«Beh, iniziare la prima media con lo scoprire che mi sarebbe piaciuto baciare la mia migliore amica è stato alquanto uno shock. Ci ho messo anni ad accettare la cosa.»
Restiamo zitti tutti e due per diversi minuti, finché non sento la testa di Nate che mi tocca la spalla e mi ritrovo quasi a iper ventilare.
«Nessuna reazione? Davvero?»
«Sono rimasta senza parole, direi che è una reazione sufficiente.»
Appoggio la guancia sui suoi capelli e mi allungo per prendergli la mano. È calda come l’altro giorno e mi sembra così strano essere passata dal non rivolgergli quasi una parola all’essere qui con lui come se non avessimo mai smesso di essere amici. O forse qualcosa di più.
«Quindi?» chiede intrecciando le nostre dita. «Siamo amici o usciamo insieme?»
«Beh, direi che la risposta sembra essere scontata. Non hai mai avuto bisogno di ripetizioni, vero?»
Nate sfodera il suo mezzo sorriso.
No, non è affatto stupido.

  1. Il nome della protagonista è ispirato a Audrey Hepburn (1929-1993), attrice e ambasciatrice dell’UNICEF dal 1988 all’anno della sua morte, e a Emmeline Pankhurst (1858-1928), attivista e politica britannica che guidò il movimento delle suffragette del Regno Unito, portando le donne a ottenere il diritto di voto.
  2. Panky, nell’espressione hanky-panky, indica un qualcosa che va contro le regole o le convinzioni consone per la morale comune. In genere è riferito al sesso e ai rapporti intimi.
  3. La NCAA (National Collegiate Athletic Association) è un’organizzazione senza scopo di lucro che gestisce le attività sportive degli atleti iscritti ai programmi sportivi dei college e delle università negli Stati Uniti e in Canada.

Come tutti gli altri racconti della rubrica, spero che anche questo vi sia piaciuto! Fatemi sapere cosa ne pensate e se volete magari rivedere questi due giovani protagonisti!

Federica 💋

Storytelling Chronicles #20

Buongiorno a tutti!

Per questo lunedì ho pensato di iniziare la settimana in modo diverso, proponendovi il racconto per la Storytelling Chronicles, la rubrica di scrittura creativa ideata da Lara di La Nicchia Letteraria e con grafica di Tania di My Crea Bookish Kingdom – ormai la conoscete meglio di me!

Ebbene il tema di questo mese era doppio: dovevo seguire le castagne e le foglie! Ne è uscita una storia curiosa, ispirata a un luogo vicino a dove vivo, chiamato la Madonna della Castagna, un santuario sulle colline di Bergamo circondato da un bosco di castagni e ippocastani. Da noi, anche a scuola, è quasi una tradizione andarci in questo periodo per raccogliere le castagne da mangiare, ma ci si trovano anche le matte – da noi sono le genge, quelle lucide e da usare per allontanare i malanni – e sono queste che mi hanno ispirata.

Ecco, ora che il preambolo è finito vi lascio al racconto. Buona lettura!

Castagne matte

Guardo i prati tinti d’ambra, la collina travestita nei colori dell’autunno, e mi sembra di soffocare. Ho passato anni seduta su questa panchina, lo sguardo perso sul paesaggio o in un libro mentre mio padre dipingeva, tuttavia è la prima volta che lo spettacolo davanti agli occhi mi toglie il fiato. Non in senso positivo.
Dodici mesi fa l’ho accompagnato qui per l’ultima volta; perché anche se la malattia gli aveva da tempo tolto la possibilità di portare avanti la sua passione mio papà adorava stare qui, gli donava pace osservare questo scorcio di natura incontaminata nel bel mezzo della città. Diceva che gli ricordava i primi anni di matrimonio, sempre diversi, imprevedibili e meravigliosi, e gli faceva sentire la mamma più vicina, lei che adorava stare all’aria aperta.
Alzo gli occhi al cielo per non far vincere le lacrime, perché papà mi sgriderebbe se mi vedesse.
«Mi hai pianto abbastanza, tesoro. Sii triste, se devi, ma hai ricordi felici in abbondanza per scacciare le lacrime con un sorriso.»
Ed è proprio ciò che faccio al pensiero che mi direbbe una cosa simile, perché era convinto che il dolore dovesse avere una data di scadenza davvero breve, mentre la felicità e i ricordi belli si sarebbero autoconservati per l’eternità. Papà era fatto così e ricordarlo, sorridere, allenta la stretta al petto che mi fa sentire in balia di un mostro crudele e mi chiude la gola.
Gli ippocastani e i castagni del viale alle mie spalle mi offrono un leggero riparo dal sole tenue della giornata e offrono un terreno fertile per i bambini alla ricerca dei frutti da far cuocere o da regalare, o delle foglie per decorare quaderni e diari, da portare a scuola per progetti che li fanno ridere e correre un po’ ovunque. La loro presenza era un altro dei motivi per cui papà amava questo posto.
Lo facevano ridere, con le loro domande sulla pittura, e si sentiva giovane anche se…
«Scusi, lei è Rachele?»
La voce che si è intromessa nei miei ricordi appartiene a un uomo. Avrà la mia età, trent’anni o giù di lì, alto e un viso particolare, insolito nei tratti marcati ma non per questo meno bello, gli occhi castani che vibrano di sfumature color cioccolato e vengono enfatizzati dai corti capelli corvini. Mi studia e mi rendo conto adesso che attende una risposta.
«Sono io, sì.» Mi riscuoto e mi alzo, perché la sua altezza mi mette in soggezione. «Mi perdoni, ma ci conosciamo?»
Lui sorride, un gesto che è un miscuglio tra imbarazzo e fascino naturale per nulla ostentato, le mani infilate nelle tasche del gubbino di pelle mentre scuote appena la testa.
«No» aggiunge poco dopo, «ma l’ho riconosciuta subito. Le descrizioni di Antonio erano sempre accurate.»
Antonio? «Mio padre?» Sono stupita, perché non ne sapevo nulla. «Le ha parlato di me?»
«A volte. Era davvero orgoglioso della figlia giornalista.» Il castano dei suoi occhi vira al nero in un istante. «Mi dispiace per la sua perdita. È stato l’anno scorso, vero?»
«Sarà un anno domani, sì.» Sento la voce contrarsi, la gola che si chiude per il dolore, ma mi sforzo per non lasciare che vinca. «Grazie. A volte mi sembra sia successo ieri, invece è già passato tutto questo tempo.»
«Lo capisco. Ho perso mio nonno anni fa, tuttavia sento ancora la sua mancanza.»
Restiamo a guardarci in silenzio per alcuni secondi. Mi pare strano trovarmi qui con uno sconosciuto a parlare di mio padre e della mia perdita, senza sentirmi a disagio né trovarlo invadente. È… normale, per quanto possa esserlo con uno di cui non conosco nemmeno il nome.
«Non mi ha detto come si chiama.» Lo vedo strabuzzare gli occhi nel rendersene conto, un’espressione buffa che mi fa aggiungere: «Possiamo darci del tu?».
«Ma certo. E comunque, sono Matteo.»
Allungo una mano nella sua direzione e lui, dopo aver esitato soltanto per un secondo, ricambia il gesto con trasporto. Ha una presa salda e dita calde, forse perché le ha tenute nelle tasche per tutto questo tempo; il contatto con la pelle ruvida dice molto della sua persona, così come i calli che la contraddistinguono. È la mano di un uomo che lavora e che lo fa senza mezze misure, in modo diretto e determinato.
Una mano che mio padre avrebbe adorato ritrarre.
«Qual è il verdetto?» me lo chiede mezzo divertito, i suoi occhi che si abbassano verso le nostre mani ancora unite quando corrugo la fronte. «Antonio diceva sempre che una stretta di mano…»
«…vale più di mille parole» concludo insieme a lui, felice che si ricordi il detto preferito di papà. «È positivo, a ogni modo.»
«Ne sono contento.» Le sue labbra si aprono a mostrare i denti, perfetti e bianchi, e io lo osservo incredula per la trasformazione straordinaria del suo viso. «La prima volta che l’ho incontrato mi ha detto che dovevo lavorarci sopra se volevo fare una buona impressione.»
«Beh, ci sei riuscito.» Ritiro la mano e un po’ me ne dispiaccio. «Quando lo hai conosciuto?»
«Una vita fa» scherza. «È stato l’incontro giusto al momento giusto.»
«Come mai?»
«Avevo tredici anni, ero arrabbiato perché mio padre mi aveva portato via la chitarra e mi aveva messo in punizione. Per ripicca sono scappato di casa, finendo seduto proprio sulla panchina dove te ne stavi seduta tu.» Scuote la testa, lo sguardo che spazia verso il panorama e poi torna su di me. «Stavo qui a borbottare quanto detestassi il mio vecchio, quando è arrivato Antonio. Mi ha guardato, ha scosso la testa e poi ha montato il cavalletto, iniziando a dipingere. Non so quando, ma a un tratto mi sono avvicinato e lui mi ha chiesto di prendergli un tubetto dalla borsa. È stato categorico, quasi se lo aspettasse.»
«Fammi indovinare: lo hai mandato a quel paese.»
«Peggio. Gli ho detto che la pittura era da stupidi e da femminucce. Volevo farlo arrabbiare tanto quanto lo ero, ma non ha funzionato.»
«Certo che no.» Papà si infuriava raramente e ci voleva ben altro per farlo innervosire. «Ti ha detto qualcosa?»
«Che se ero bravo in un’attività più costruttiva tanto quanto lo ero a essere arrabbiato avrei avuto successo. Poi mi ha mostrato la mano, chiedendomi di stringerla.» Nasconde le dita tra i capelli, l’espressione lontana come se stesse rivivendo quel ricordo. «“Una stretta rivela chi sei” ha spiegato, “e vale più di mille parole. Devi migliorarla se vuoi fare una buona impressione.”»
«Tipico di papà» mormoro davanti alla profondità del suo trasporto, quasi per paura di strapparlo a quel momento.
«La parte più strana arriva adesso» mi informa, il braccio che torna al proprio posto e le mani in entrambe le tasche. «Era metà ottobre e faceva un po’ più freddo di oggi, perciò quando mi ha sentito starnutire si è guardato attorno, ha raccolto qualcosa da terra e poi ci ha disegnato sopra. Sai cos’era?»

«Una castagna matta.» Quelle che non si possono mangiare perché velenose, le stesse che infilava anche a me in ogni tasca possibile. «Si crede prevengano il raffreddore.»

«Infatti.»
Estrae la mano e quando apre le dita, sul palmo tiene proprio una castagna, il lato curvo occupato dal disegno di una piccolissima foglia di ippocastano. Sotto ci sono anche due iniziali: A. L., Antonio Lotti.
Papà.
«Da quando me l’ha regalata non l’ho più preso.»

«Davvero?» Questa mi suona strana, perché lo sanno tutti che non funzionano davvero.
«Lo giuro» conferma serio, il suo sorriso a metà che lo rende sincero. «Antonio ha riso quando gliel’ho detto.»
«Quando vi siete visti l’ultima volta?»
«Quasi sei anni fa. All’epoca iniziavano a tremargli solo un po’ le mani.» I suoi occhi si spostano sul paesaggio prima di proseguire. «Sono stato all’estero fino a un mese fa. Mi è spiaciuto non essere tornato per il funerale.»
Annuisco a malapena. «È stato meglio così forse. Papà non era più lo stesso alla fine.»
Vorrebbe dire qualcosa, ma due bambini con gli stessi occhi e capelli castani lo raggiungono di corsa e lo travolgono di domande, oltre che con dei tentativi saltargli addosso. Vederli insieme mi ricorda di quando ero piccola, e con mia sorella rincorrevamo papà, o giocavamo a nascondino con lui. Sono davvero teneri da osservare.
«I tuoi bambini ti adorano» dico con un sorriso quando li osserva allontanarsi di nuovo, ma solo dopo aver promesso loro di raggiungerli presto.
«I miei… cosa?» Resta di stucco e la testa scatta nella mia direzione per fissarmi negli occhi. «Quei due? No, no, non sono miei. Sono solo lo zio. C’è mio fratello con la moglie più avanti.»
«Oh, scusa. L’ho dato per scontato perché ti somigliano.»
«Davvero? Non l’ho mai notato…» Si guarda attorno, forse in imbarazzo perché non sa come congedarsi senza sembrare scortese.
Meglio se lo levo dall’impiccio.
«Grazie per la chiacchierata. Mi ha fatto davvero piacere.»
«Anche a me.» Gioca con i lati del giubbotto, indeciso, e vedere il suo imbarazzo mi diverte, perché è una cosa davvero tenera da parte sua. «Senti…»
«Se devi andare, nessun problema. Tranquillo.»
«Ah, ok.» Le sue spalle si abbassano. «Allora… Ciao, Rachele.»
«Ciao, Matteo.»
Fa un passo verso i suoi nipoti e sto già per sedermi ancora sulla panchina quando ci ripensa e torna indietro. Con la mano si scompiglia i capelli, mentre l’altra è lungo il fianco, le dita che fanno roteare la castagna matta come una trottola.
«Senti…» inizia, per poi fermarsi e pensarci su. «Senti, Rachele, so che sono un estraneo ma… Ti andrebbe di unirti a noi. Raccogliamo le castagne e sulle matte disegniamo una foglia, niente di che. Ma mi farebbe piacere se ci fossi anche tu.»
È… non lo so. Vorrei rifiutare, ma appena guardo la panchina su cui sono rimasta seduto per ore, mi sembra di risentire la voce di papà, la sua risata e il fruscio del pennello sulla tela. E di vederlo annuire, come se mi dicesse di andare, che lui starà bene. E mi ritorna in mente perché ha sempre disegnato una foglia sulla castagne matte.
«Le foglie riparano dalla pioggia e dal sole troppo forte» mi aveva detto una volta. «Sono lo scudo che ci rende più forti e sicuri, come la famiglia. A volte danno fastidio, ma alla fine ci permettono di diventare chi siamo davvero.»
Guardo Matteo, che il giorno in cui ha incontrato mio papà aveva litigato con il suo, che aveva starnutito per essere forse uscito di casa troppo in fretta e senza coprirsi bene. E sorrido, perché anche se il mio papà non c’è più e fa malissimo non averlo qui con me, di lui mi resta tutto ciò che abbiamo fatto insieme. È la mia castagna matta con la foglia, il mio scudo, e adesso devo lasciare che faccia il suo miracoloso effetto.
«Vi aiuto molto volentieri.»

Fine!

Fatemi sapere se vi è piaciuto e se conoscevate già le castagne genge 😊

Federica 💋

Storytelling Chronicles #19

Buongiorno 😊

Dopo la pausa di agosto, anche la rubrica di scrittura creativa, la Storytelling Chonicles, torna a pieno ritmo. Nata da un’idea di Lara di La Nicchia Letteraria e con grafica di Tania di My Crea Bookish Kingdom, la rubrica propone ogni mese un tema diverso sul quale creare una storia e a settembre la tematica è: Il rientro a scuola.

Non so bene dov’è andato a parare il mio racconto, ma dà uno sguardo diverso sul fatidico momento del rientro 😅 Be’, buona lettura e…

Benvenuti a Crossberry Park

Inspiro piano, le dita che corrono a lisciare una piega immaginaria sulla gonna blu.
So che non c’è, mi sono alzata apposta all’alba per stirarla, ma l’ansia è tanta e ho la tentazione di controllare ancora una volta che anche la camicetta sia in ordine. E se si forma un alone sotto le ascelle? Oddio spero di no, ma ormai è troppo tardi per tornare in stanza e prendere una giacca.
Controllo l’orologio da polso: le otto e cinque. Perfetto, sono già in ritardo.
Avanzo per i corridoi con una certa fretta, i tacchi bassi che emettono un rintocco acuto ogni volta che sbattono a terra mentre diverse teste si voltano e mi salutano. Chi lo accenna, chi invece vorrebbe scambiare due chiacchiere, ma tutti mi vedono passare e rivolgono un cenno proprio a me, io che ancora fatico a credere di essere il centro della loro attenzione. Ma li ricambio tutti, dal primo all’ultimo, con un sorriso contenuto e alcuni “Buon primo giorno di scuola” lanciati tra pareti tirate a lucido e porte di aule che via via si chiudono.
La mia di porta, grande e di legno scuro, mi attende alla fine del corridoio, su per un’imponente rampa di scale in marmo con il corrimano lavorato. Gradino dopo gradino sento il nodo allo stomaco serrarsi sempre di più, un peso che ieri era un sassolino e oggi è diventato un macigno dalle dimensioni di Stonehenge. Estremamente poco pratico da portarmi dietro.
Superare l’ultimo gradino è un po’ come oltrepassare il Rubicone di Cesare: non si torna indietro.
E infatti solo una manciata di paesi mi separano dalla mia meta. Volo alla porta senza nemmeno accorgermene, le dita che sfiorano la maniglia fredda e mi risvegliano da un torpore che non mi sono resa conto di provare.
Oggi è il primo giorno di un nuovo anno scolastico alla Crossberry Park Academy, una scuola un po’ come Hogwarts ma per ragazzi e ragazze dalle scarse prospettive economiche. In pratica, accogliamo chiunque non riesca ad accedere all’istruzione di base, per qualunque ragione accada.
A fondare l’istituto è stato Sir William Craven Crowling, ospitandolo nell’antica tenuta di famiglia, e Sir Crowling è l’attuale unico finanziatore della scuola, oltre che suo amato direttore fino allo scorso anno.
Perché da oggi subentro io…
Coraggio Jane, non è nulla che tu non abbia già fatto.
Me lo ripeto per darmi coraggio mentre spalanco l’uscio e lo attraverso. Il mio ufficio mi accoglie col silenzio, un vago alone di tradizione e antico sapere che aleggia nell’aria grazie alle alte librerie di mogano che occupano le pareti laterali. Sir Crowling era solito occupare la scrivania di fronte all’ingresso, con una pipa sempre accesa alle labbra e quell’espressione bonaria sul viso longilineo. Sei mesi fa, proprio in questo ufficio, mi ha detto di voler andare in pensione e di avermi scelta come suo rimpiazzo.
Oggi è il primo giorno della direzione “Jane Yates”. Ed è già in ritardo.
Il mio mentore riderebbe, ma con quell’occhiata severa e complice che ti rimette in riga, perciò mi affretto verso il grande mobile di mogano e prendo posto sulla sedia girevole, il solo accenno di modernità che sono riuscita a introdurre. Oltre al computer, ovvio, che già lampeggia per le nuove email della giornata.
Dopo, quello viene dopo. Adesso la mia attenzione è tutta per il microfono collegato all’interfono. La tradizione va rispettata fino in fondo, anche se in ritardo, perciò…
Mi schiarisco la voce e si parte. Premo il tasto on alla base, lo stacco dell’impianto che ronza è il segnale che lo spettacolo può iniziare.
«Gentili studentesse, gentili studenti, buon primo giorno di scuola a Crossberry Park.» Sorrido tra me, il ricordo di com’era strano sentire le stesse parole dalla voce di Sir Crowling, il timbro baritonale distorti dall’altoparlante. «Vi aspettano mesi impegnativi, fatti di studio e prove da superare, ma per quanto grandi saranno le sfide che affronterete, ricordate sempre una cosa: Crossberry Park vi ha accolto perché crede in voi, crede nelle potenzialità che voi ancora forse ignorate.»
Mi prendo una pausa, voglio lasciare spazio agli studenti affinché comprendano ciò che ho detto. So che non mi stanno ascoltando tutti, anzi sono fortunata se lo sta facendo qualcheduno, ma so che è importante che anche solo uno di loro capisca appieno e abbia modo di interiorizzare il messaggio.
«Significa impegnarsi giorno per giorno, mettersi in gioco e scoprire di cosa siete capaci.» Altra pausa, ma solo per preparare il colpo che li farà ridere. «Oltre a trovare una nuova zona della tenuta dove appostarsi per vendere le risposte ai test e i materiali di studio. Il frutteto è troppo esposto, se lo ricordi la prossima volta, Mr Welsh.»
Gregory Welsh, sedici anni, un piccolo imbroglione che cerca di fregarmi in ogni modo possibile ma che finisco sempre col mettere nel sacco. Sono curiosa di vedere cosa si inventerà quest’anno.
«Studiate, ridete, divertitevi e trovate voi stessi in questo nuovo anno a Crossberry Park. I professori e io saremo lì a guidarvi lungo la strada, e a controllarvi con un occhio aperto… e l’altro pure, Mr Welsh. Che sia una buona giornata, ragazze e ragazzi. La vostra direttrice, Jane Yates.»
Lascio andare il microfono e il ronzio cessa. L’ufficio si fa di nuovo silenzioso, eppure adesso riesco a concedermi un vero sorriso disteso. Niente più ansia ma l’adrenalina per tutte le avventure che vivranno i miei studenti e io con loro.
Sì, questo sarà un anno scolastico prefetto.
Sto ancora gongolando per la buona riuscita del mio discorso quando Mrs Chills, la mia segretaria e vice, bussa frenetica alla porta e la apre prima che abbia il tempo di dire “Avanti”.
«Sì, Mrs…»
«Oh, Miss Yates!» mi interrompe, la voce più alta del normale e sconvolta all’inverosimile. «Non ha idea di cos’è accaduto.»
Di già? Sono solo le otto e venti!
«Qualche studente si è fatto male?»
Mi rivolge un’occhiata stralunata e inorridita. Nel caso di Mrs Chills è un buon segno: non riguarda gli allievi. Ottimo.
«No, non sarei così sconvolta altrimenti.» Giusto, per lei è un miracolo se non avviene un omicidio a settimana. Poi prosegue. «Riguarda… Oh, che tragedia… Fatico a crederlo.»
E io a capire, ma con lei è la norma. «Cos’è successo?»
«Non so come dirglielo, ma… ecco…» Si siede, o meglio accascia, su una delle poltrone in pelle davanti alla scrivania.
Davvero è tanto grave da rovinare l’euforia della giornata? Non può essere successo nulla di così brutto in soli quindici minuti, no? Avanti, è il primo giorno di un nuovo anno scolastico. Deve andare bene.
«Sir Crowling è morto.»
No, è appena andato tutto a rotoli.
E buon primo giorno di scuola anche a te, Jane.

Un rientro con il botto, quello di Jane 😂 fatemi sapere cosa ne pensate!

Federica 💋

Storytelling Chronicles #18

Buongiorno!

Anche a luglio torno con un nuovo racconto per la Storytelling Chronicles (banner di Tania My Crea Bookish Kingdom), la rubrica di scrittura creativa che ormai ben conoscete e che ha fatto da casa a tanti personaggi! Per questo mese, Lara (La Nicchia Letteraria) ha proposto come tema il prendere ispirazione per genere, pov e protagonista dal libro che più ci è piaciuto del/la nostr* autore/trice preferit*. Mi spiego: io ho scelto Lisa Kleypas (e questa settimana sarà anche dedicata a lei) e il suo romanzo Peccati d’inverno, perciò il genere è il romance storico, il pov è la terza persona e per protagonista un maschio etero di alta estrazione sociale.

Date le premesse, non potevo non tornare da Lizzie e Marcus, anzi solo Marcus questa volta. Qui vi lascio le scorse “puntate”:
I nipoti del duca
Ciò che il ton si attende
La determinazione di una lady

E ora il racconto di oggi! Buona lettura!

Come sconvolgere un duca

Marcus si sistemò a uno dei tavoli liberi del White’s e ordinò da bere.
Ne aveva un disperato bisogno, anche se non era nemmeno mezzogiorno. Anche se ancora riusciva a sentire il sapore del brandy bevuto quella notte con Elizabeth. E sulle sue labbra.
Elizabeth, mugugnò tra sé, il volto della sua protetta che gli balzò davanti agli occhi come una visone. Che abbiamo combinato?
Non aveva scuse che giustificassero il suo comportamento inqualificabile, né si poteva dire troppo ubriaco da non sapere cosa stesse facendo. No, lui aveva approfittato della situazione con estrema lucidità e se lei non si fosse tirata indietro, solo Dio sapeva cosa sarebbe accaduto tra loro. Marcus ne aveva avuta una chiara visione per il resto della notte, trascorsa a fissare le fiamme nel camino della biblioteca e poi in quello nelle sue stanze. Era rimasto sdraiato sulla propria poltrona finché il suo valletto non si era presentato per aiutarlo a vestirsi. Al povero Summers era venuto quasi un colpo quando aveva visto lo stato in cui si trovava; non che potesse biasimarlo, dato che si era spaventato anche lui nello scorgere il suo stesso riflesso.
Ringraziò con un cenno il cameriere quando gli fu servito il whisky, si fece lasciare la bottiglia e trangugiò il primo bicchiere in pochi sorsi. Sperava che il fuoco lungo la gola annientasse la brama cocente che da ore gli impediva di pensare in modo sensato, reso incapace di articolare una qualche replica a ciò che era accaduto tra lui ed Elizabeth.
Perché il gentiluomo che era in lui premeva per portarlo ad accettare l’unica conclusione possibile dopo il loro incontro di quella notte. La sua coscienza gli aveva gridato una sola parola per tutta la notte.
Matrimonio, pensò di nuovo con sconcerto, dovrei sposare Elizabeth e proteggere il suo onore. Tuttavia, la frase che lei gli aveva rivolto prima di correre fuori dalla biblioteca era la ragione che lo aveva portato al club, attento a non incrociare nessuno mentre usciva di casa. Arricciò le labbra al ricordo di quella mattina. Chi voleva prendere in giro? Lui, il decimo duca di Colton, era scappato per la paura di incrociare Elizabeth o, peggio ancora, sua madre. Rose Haynes aveva la vista acuta quando si trattava di scorgere l’inquietudine del figlio e Marcus non voleva correre alcun rischio, non quando lei lo avrebbe di certo convinto a seguire la strada più onorevole. Ma non era certo che fosse ciò che Elizabeth desiderava.

Lo aveva definito istruttivo, il bacio che si erano scambiati e che aveva alterato il suo mondo, insieme all’idea che si era fatto di Elizabeth; lo aveva ringraziato, come se quell’esperienza non avesse smosso in lei nient’altro che i confini di ciò che cercava in un consorte, come se lui non facesse parte della lista dei possibili mariti e le fosse servito solo per schiarirsi le idee.
Le dita gli si strinsero attorno al bicchiere, i denti che digrignarono quando una risata improvvisa arrivò dalla poltrona libera dall’altro lato del suo tavolo. Guardò con la coda dell’occhio l’uomo che si era appena seduto al suo fianco. Alto, i tratti marcati e gioviali circondati da una folta chioma castana, James Crosswell, quinto conte di Ashbury e suo vecchio amico, lo squadrava con un sorriso di scherno per l’espressione arcigna che di certo piegava il volto di Marcus.
«Se avessi saputo che il tuo invito era per sorbirmi il tuo pessimo umore, me ne sarei rimasto tra le braccia della mia ultima conquista, Vostra Grazia
«Non usare quel tono, James» lo pregò, con un gemito roco a incrinargli la voce. «Non ho la forza di rispondere alle tue battute.»
«Ma di tracannare whisky sì, a quanto vedo. Bene, benvenuto nel club dei perdigiorno Marcus» lo canzonò l’altro, chiedendo un bicchiere anche per sé. «A cosa dobbiamo il tuo strano desiderio di bere?»
A una giovane donna che mi ha definito “istruttivo”. Quel pensiero trovò voce in un mugugno attutito da un nuovo sorso di whisky. E che mi ha liquidato senza nemmeno voltarsi indietro.
«Per caso ha a che fare con il ballo di mia madre? Ho saputo che sei stato al centro dell’interesse di tante giovani donne.»
«Sì, ma… non esattamente.» Esitò, osservando prima il bicchiere e poi il suo vecchio amico. Doveva trovare il coraggio di chiedergli ciò che gli interessava per la sicurezza di Elizabeth, per mettere il suo stesso animo in pace. «Dovrei sapere qualcosa su tuo fratello?»
James sollevò un sopracciglio, incuriosito. «Nulla che debba essere menzionato. Certo ha gusti strani, per un giovane della sua età, ma nulla che il tempo non possa correggere.»
Marcus alzò la testa di scatto. «Gusti strani?» Buon Dio, dopo il discorso fatto a Elizabeth la sera prima non poteva essere un depravato. Marcus si sentì gelare al pensiero di ciò che le sarebbe potuto accadere con un uomo del genere, uno che difendeva la morale in pubblico mentre in privato…
«Sì, sai, come il latte rispetto al vino o l’arrosto di vitello invece dell’anatra glassata. Le solite cose.» L’amico sorrise, fece un sorso di whisky e poi proseguì. «Ma cosa pretendi da un ragazzino di dieci anni.»
«Dieci… cosa?» Marcus squadrò l’espressione divertita di James per un secondo e realizzò l’ovvio. «Hai due fratelli.»
«Tre, in verità» confessò con un velo di buonumore, «ma presumo parlassi di Henry, visto che Michael e Sean non hanno ancora l’età per partecipare ai balli.»
Avrebbe dovuto saperlo. James amava prendersi gioco di lui, soprattutto della sua impostata serietà. Ci era passato a Eton e a Oxford, ma ancora non riusciva a farci l’abitudine. Specie ora, che gli premeva conoscere cosa avesse detto o fatto Crosswell dopo aver lasciato Elizabeth al ballo.
«Allora?» Suonò brusco, fin troppo, ma l’alcool lo rendeva meno accorto. «Cosa puoi dirmi di tuo fratello?»
«Te l’ho detto, nulla che debba essere menzionato. È il secondo, ha una buona rendita personale e, che la Regina e Dio ce ne scampino, Henry è talmente puntiglioso che asciugherebbe le scarpe anche prima di entrare in una stalla, oltre a essere il gentiluomo più garbato che esista.»
«Mm.»
Non lo era stato per dire a Elizabeth di comportarsi come una degna lady inglese, un nuovo mugugno accompagnò quel pensiero.
«Quindi, vediamo se ho capito: mio fratello ha ballato due quadriglie con Lady Elizabeth Whitmore, giovane signorina sotto la tua tutela, e dopo una chiacchierata in terrazza, a cui ha assistito tutto il ton, tu mi chiami per chiedermi di Henry.» Elencò il tutto con fare assente, poi però strabuzzò gli occhi. «Misericordia, non dirmi che dobbiamo organizzare un matrimonio?»
«Sul mio cadavere» borbottò Marcus, le labbra a un soffio dal bicchiere.

«Come, prego?» James restò di sasso perché sì, aveva udito le sue parole, e Marcus era certo non lo avesse mai visto ridotto in quello stato. «Potresti dirmi che succede?»
«Elizabeth ha deciso di sposarsi, ecco perché siamo rientrati a Londra.» La mente del duca fece ritorno per un istante ai giorni trascorsi a Haynes Manor. Se fossero rimasti in campagna nulla sarebbe cambiato tra loro.
«Una pessima ragione, se mi permetti, ma comprendo che per una giovane con così tanti anni di lutto alle spalle la ricerca di un marito possa essere uno svago non da poco.» James rabbrividì, una smorfia a piegargli le labbra. «Spero non vada a caccia di titoli. In quel caso, avvertimi. Vedrò di fuggire in campagna in men che non si dica.»
Marcus scosse la testa. «Cerca un matrimonio d’amore.»
«Oh, un animo romantico! Quelli sono i peggiori, amico mio. Eppure non capisco come tutto questo abbia a che fare con mio fratello.»
«Sembra che da bambino le abbia promesso di sposarla, qualora avesse iniziato a pensare al matrimonio.»
James lo studiò per un secondo di troppo, poi si lasciò andare a una risata fragorosa, tanto da attirare su di loro le occhiate degli altri gentiluomini presenti. Marcus sentì il collo scottare, l’imbarazzo per essersi esposto tanto che gli fece distogliere lo sguardo dall’amico per puntarlo sul proprio bicchiere. Sapeva anche lui quanto fosse ridicolo dar credito alla sciocca promessa di un bambino, tuttavia sentiva un fremito di rabbia attraversarlo al pensiero che Elizabeth potesse essere tentata dalla sua proposta. Dopo la notte appena passata, Marcus era ancor più intenzionato a vagliare tutti gli scapoli su cui avesse posato gli occhi, pronto a intervenire se qualcuno avesse osato prendersi delle libertà.
Esattamente come ho fatto io, maledizione!
Si rimproverò un’altra volta, incapace di decidere se sfidarsi a duello da solo o se tornare di corsa a casa per cercare di capire come stesse reagendo Elizabeth al loro bacio. E magari provare di nuo… No! Decisamente no!
«Perciò tutto questo è per una sciocca promessa fatta da bambini?» chiese il conte di Ashbury quando riuscì a placare l’attacco di risa. «Capisco l’elevato senso dell’onore, Vostra Grazia, ma non ti sembra un po’ troppo?»
«Le ha rinnovato la promessa, James, durante la chiacchierata in terrazza.»
«Oh.» Gli occhi scuri di James si velarono appena di preoccupazione. «Classico di Henry. Un po’ avventato ma lodevole. Te l’ho detto, è un gentiluomo fino al midollo.»
«Mm.» Marcus arricciò le labbra, l’alcol che non lo aiutava a tenere a freno i pensieri. «Non sempre a quel che so.»
«Spiegati.» Il tono formale di James non lo stupì. Il conte era sempre pronto a difendere la famiglia.
«Ha redarguito Elizabeth, ricordandole in malo modo quali fossero i sani principi delle lady inglesi. Non è stato propriamente un gentiluomo.»
«Se ha offeso Lady Whitmore, faremo ammenda. Gli parlerò, Marcus, e sistemeremo tutto.» L’amico gli lanciò un’occhiata di sbieco. «Ma cosa ti prende? Non può essere stata solo colpa di quel puntiglioso di Henry.»
«No, è successo anche qualcos’altro quando ho parlato con Elizabeth.»

Avrebbe voluto chiedergli se gli fosse mai capitato di scoprire quanto una persona potesse sembrargli diversa soltanto per aver scoperto un nuovo anfratto del suo carattere, ma Marcus fu interrotto da un valletto e da un biglietto indirizzato proprio a lui. Veniva da casa.
Ruppe il sigillo con il tagliacarte che gli avevano consegnato insieme alla busta, le dita impazienti mentre gli occhi scorrevano le parole tracciate dalla calligrafia di sua madre.

Per quanto i tuoi impegni ti tengano occupato,
a casa la tua presenza sarebbe alquanto gradita.
Altrimenti la cara Lizzie, i tuoi nipoti e io saremo i soli
a intrattenere Mr Crosswell e sua madre per il pranzo.

Marcus guardò l’orologio da taschino e imprecò tra sé per l’ora.
«Sei impegnato per pranzo?» Si ritrovò a chiedere con un’occhiata sbilenca a James.

«Nulla di inderogabile. Perché?»
«Ottimo. Hai appena guadagnato un invito da me» lo informò, il corpo che scattò in piedi travolto da una scarica di energia nervosa. «Ci saranno anche tua madre e tuo fratello.»
«Come… Aspetta, quale dei tre?»
«Henry, il puntiglioso» rispose, il fastidio e lo scherno che si mescolarono nella sua voce. «Vieni?»
James sorrise apertamente. «Non mi perderei questo pranzo per nulla al mondo.»

E fine! Spero che questo racconto vi sia piaciuto e, se l’ispirazione mi assiste, spero anche di potervelo raccontare, questo pranzo a casa Haynes! Incrociate le dita per me 🤞 e se vi va, fatemi sapere le vostre impressioni sul racconto 😊 

A presto
Federica 💋