La caduta di Samaris

Buongiorno 😊 e buon inizio settimana! 

Ritorna Il Club di Aven, un evento Facebook al quale si può partecipare scrivendo un racconto a tema. Questa volta le tracce da poter seguire erano due: “Inseguimento/essere inseguito” & “Fino al punto di rottura”! Questo racconto ne è la mia re-interpretazione. Spero vi piaccia 😊

Oltre le finestre la cittadella splendeva, lucente e forte come in pieno giorno.
Si era svegliata di soprassalto, intontita dal sonno e dalla sua tenera età, ma la bambina aveva capito presto che quelle luci splendenti avevano l’origine più oscura che potesse concepire. Erano fiamme, fuochi e incendi che devastavano le scoscese vie di Samaris, le sue case e i suoi poveri abitanti. Ogni angolo della Città-forziere era avvolto dall’inferno scatenato dall’uomo, sovrastato da un cielo nero di fumo e schiacciato da una coltre di suoni stridenti e minacciosi.
Le mura erano cadute. L’assedio era finito. E lei fece ciò che le era stato inculcato in quei mesi.
Cominciò a correre.
I corridoi del palazzo serpeggiavano di grida e di comandi imperiosi, di passi mostruosi e del cupo clangore del metallo. Gli incubi della sua fugace infanzia si erano manifestati nella realtà, piombando nella notte tenebrosa per inghiottirla. Calde lacrime di terrore le disegnavano il viso, eppure la bambina proseguì lungo la strada che le era stata insegnata senza mai fermarsi. Dentro di sé aveva la dolce voce di sua madre, la guida che le stava permettendo di non lasciarsi vincere dalle paure.
«Se dovesse accadere» le aveva sussurrato una notte, dopo l’ennesimo sogno di distruzione che l’aveva lasciata urlante e scossa nel suo letto. «Tu sai cosa fare. Devi raggiungere più in fretta che puoi il Tempio Sacro e lì ci troverai. Lì saremo tutti al sicuro»
I suoi piccoli piedi volavano sul freddo pavimento, passi silenziosi impossibili da rintracciare nel frastuono di una battaglia ormai sempre più prossima a raggiungerla, mentre con gli occhi e il cuore la bambina registrava immagini terrificanti, gesta mostruose che vibravano nell’intenso colore di quelle fiamme sempre più alte nel cielo. Tutto bruciava dello stesso colore di morte, una tavolozza di due sole tonalità: il rosso delle fiamme, dei vessilli nemici, del sangue versato che imperlava le pareti; e il bianco spettrale della sua tunica da notte, dei volti immobili di coloro che aveva visto sorridere, vivere nel palazzo.
Il suo mondo di bambina stavo morendo e lei proseguì per la sua strada.
Lungo i corridoi, e le scale, e i passaggi della servitù; superò porte dietro le quali inutili suppliche erano seguite da penetranti silenzi e alcove dove giacevano scomposte le armature indossate dagli uomini della guardia, prigionieri immobili al loro interno. Vide e si lasciò alle spalle ognuna di loro, sgusciando lungo i muri finché non arrivò all’intersezione che l’avrebbe condotta alla salvezza.
Il suo piccolo corpo tremava per la fatica, per il terrore, ma provò solo sollievo quando svoltò l’ultimo angolo e si ritrovò nell’area sacra del palazzo. In quell’ala tutto taceva, e solo un leggero eco di quella devastazione sembrava raggiungerla, ora che era quasi arrivata.
Ma ben presto un corno suonò.
Le orecchie della bambina furono soverchiate da quel suono nefasto. Colò su di lei come olio, inondandole gli occhi, le narici, la gola, privandola dell’aria. I mostri erano in agguato, l’avevano vista  e adesso era la loro nuova preda.
Le urla tra le alte pareti di marmo incombevano su di lei, fameliche iene al suo inseguimento, mentre la bambina sfilava tra due file parallele di statue. Lunghe ombre si disegnavano sui volti degli dèi e delle dee immortali, rendendo i loro tratti severi, un ammonimento al non violare la sacralità della loro dimora quando gli aggressori iniziarono a depredarla.
I bracieri dalle lunghe gambe tortili caddero, spargendo un tappeto incandescente alle spalle della bambina, su cui le offerte della città trovarono la loro condanna, la fine esemplare per le speranze che, da ore, si trasformavano in fumo anche fuori da quelle mura.
Tuttavia nel petto della piccola un battito ruggì ancora alla vista del Gran Sacerdote, con il Primo Generale e il gruppo di soldati che la attendevano nel tempietto interno, accanto all’altare d’alabastro. Quegli uomini coraggiosi le andarono incontro e respinsero coloro che inseguivano l’ultima vera luce del regno, chiudendo gli invasori al di fuori del grande portone istoriato.
«Vostra Altezza»
Il Gran Sacerdote accolse la bambina tra le ampie maniche della sua tunica e ve la avvolse, asciugando le lacrime sul suo volto innocente.
«Grazie agli dèi, siete qui. Presto, dobbiamo lasciare il palazzo e Samaris»
«No» la bambina si spinse lontano dall’uomo, nascondendo la mano quando lui cercò di afferrarla. «Non finché non arriveranno i miei genitori»
Gli occhi di lui si adombrarono. Una lunga ruga solcò il suo viso dal naso al mento quando storse le labbra.
«Le Loro Maestà non verranno»
«Sì! Sì, invece» urlò, la voce acuta spezzata dal dolore e dal terrore di quelle parole. «Hanno promesso. Al Tempio Sacro, hanno detto. Loro arriveranno»
L’uomo scosse la testa, tornando ad avvolgerla nel suo abbraccio.
«Avrei voluto avere il tempo necessario a prepararvi meglio, Vostra Altezza. Re Yas e la Regina Odeanna sono stati uccisi. Samaris è caduta, Maestà»
Quel titolo stritolò il cuore della piccola, una bestia feroce che razziò ogni emozione da quel piccolo corpo stanco. Si lasciò andare, cadendo tra le braccia del Gran Sacerdote in una stasi di apatica sofferenza.
Le mura erano cadute. La città, il palazzo e l’intero regno erano stati conquistati. I suoi genitori erano morti.
I mostri avevano abbandonato il regno dei sogni e avevano invaso il mondo degli uomini.
Tutto in una sola, terribile, lunga notte.

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Tutta la sapienza del mondo

Ciao e buon Lunedì! Anzi, buon pranzo, vista l’ora!

Quest’oggi vi lascio il mio racconto per Il Club di Aven! Il tema era “La sapienza”, o meglio cos’è, per noi, la sapienza. Spero vi piaccia!

Credeva di sapere cosa fosse necessario fare.
Sapeva esattamente ciò che tutti loro si aspettavano da lei, eppure Sara non riusciva a vedere al di là dell’immediato. Viveva giorno per giorno, convinta che così sarebbe riuscita a superare quel vuoto che sentiva al centro del proprio petto.
Nulla le era capitato, non direttamente almeno, ma una notte si era svegliata di soprassalto. Qualcosa non andava, lo percepiva nei brividi lungo la nuca, nella fredda pelle d’oca che le ricopriva la pelle. Si era rigirata a lungo, sperando che il sonno tornasse, ma solo al mattino lo aveva capito.
Si era guardata allo specchio. Aveva riconosciuto il suo viso, i lunghi capelli neri che le scendevano ribelli fino a metà schiena, le sue forme rotonde e piene. Tutto in lei era come lo ricordava. Eppure la ragazza in quello specchio non era davvero lei.
Era ogni dettaglio insignificante a raccontarle la verità; un piccolo neo sull’anca, la linea regolare dei seni, una ruga all’angolo delle labbra sottili; la sfumatura più scura delle iridi castane. Aveva guardato dentro i suoi occhi e lo aveva finalmente sentito.
Credeva fosse un crampo allo stomaco. Un senso di nausea incontrollabile. Il sintomo di un malessere passeggero.
Ma dopo un anno passato a sentirlo crescere dentro di sé, Sara si era arresa all’evidenza.
Qualcosa in lei si era spezzato per sempre quella notte. Se le avessero chiesto cosa, non sarebbe riuscita a dare una risposta. Non riusciva a descriverlo in modo comprensibile, non arrivava mai a esprimerne la giusta ampiezza, il giusto grado di incompletezza che le straziava il petto in un punto ben preciso. Era sempre lì, giusto dietro lo sterno, a metà strada tra i polmoni e il cuore.
Chi le stava accanto non si capacitava del cambiamento, non capiva come una donna giovane e piena di vita come lei si fosse potuta spegnere in quel modo nell’arco di una sola notte. Ma a Sara era successo; nello specchio rivedeva se stessa e un’estranea, una donna con il suo aspetto che aveva però perduto la luce, la completezza.
A volte, quando riusciva a prendere un respiro senza che il vuoto la schiacciasse, aveva l’impressione che qualcuno le avesse tagliato la corda che lega ognuno di noi alla vita, quel filo invisibile che lei credeva scorresse dentro gli esseri umani rendendoli parte di un unico, grande, intreccio. In quelle rare occasioni in cui non provava il desiderio di lasciarsi cadere a terra, per non rialzarsi più, Sara soffriva una mancanza inimmaginabile, senza avere una vera cognizione di cosa, o chi, le mancasse; poteva solo dire che, da quella notte, lei si sentiva incompleta.
Nell’anno appena trascorso, molti avevano cercato di darle dei consigli; tutti si ritenevano saggi, esperti e sapienti di un dolore per loro muto e inspiegabile, una sofferenza che non avrebbero mai potuto alleviare davvero, soprattutto se l’avessero conosciuta nella forma e nell’impossibilità di trovarvi una causa che lei sperimentava in ogni singolo attimo della sua esistenza. Gli ultimi dodici mesi avevano portato Sara a pregare, a cercare cure laddove la scienza non sembrava capace di portare soluzioni, studiando miti e credenze antiche, parole tramandate da tutti i saggi da oriente a occidente.
Eppure quel vuoto non veniva meno. Restava lì, dietro lo sterno, a metà strada tra i polmoni e il cuore.
Un anno dopo quella notte, Sara era lontana da casa ormai da molti mesi. Camminava da ore alla ricerca di un santone, uno di quelli che poveri e superstiziosi adoravano e temevano, l’ultimo sulla Terra a cui chiedere una soluzione al male che le dimorava dentro. Il saggio non abitava in terre desolate, lontane o esotiche, ma in piccolo paese nella campagna brulla, uno di quelli in cui la chiesa è circondata dal camposanto, da lapidi vecchie e nuove coperte di muschio e nebbia.
Fu davanti a una di quelle tombe che lo trovò. Era un uomo dimesso, un volto dipinto di rughe che gli anni e il dolore avevano reso evidenti. I suoi occhi chiari erano velati dalla stessa sfumatura che Sara scorgeva nel proprio sguardo.
E lì capì che non le avrebbe potuto dare alcuna soluzione. Quel saggio, come ogni altro incontrato nel suo lungo viaggio, non avrebbe saputo dirle come alleviare ciò che le tormentava il petto. Ma Sara trovò lo stesso la sua risposta.
Perché osservò la lapide di fronte ai suoi piedi, vi lesse le date e l’epitaffio. Apparteneva a un uomo morto un anno addietro, un giovane portato via da un tragico incidente e scomparso nella notte di una giornata triste come quella.
E allora capì. Aveva avuto ragione fin dal principio; nel suo petto era stato reciso il filo di una vita, non la sua, ma quella di qualcuno che per lei avrebbe, forse un giorno, rappresentato la sua intera esistenza. Non poteva saperlo con certezza, tutta la sapienza del mondo non sarebbe servita a trovare una vera spiegazione, però lei sentì, altrettanto chiaramente quanto il peso nel petto, che quella era l’unica verità, l’unica risposta a tutte le sue domande.
E alla fine pianse calde lacrime.

Festa a tema

Buonasera 😊

Stasera vi lascio il racconto che partecipa a Il Club di Aven, un gioco di scrittura che questa settimana aveva due temi tra cui scegliere: “Tema” e “Anima”. Io ho scelto il primo e spero vi piaccia!

«Che vuol dire che è “a tema”? Ce l’avrà un tema, no?»
«Non lo so! Senti, io ti ripeto solo quello che mi ha detto lei. Farà una festa a tema, venerdì, e ci ha invitate»
Guardo Clarissa come a chiederle se sembri solo a me che quello che ha appena detto suoni come una stronzata senza senso. Chi organizza una festa a tema senza specificare quale sia il tema?! Beh, considerato che l’invito arriva da Giada, non è poi così impossibile
«Ma almeno hai provato a chiederle che tema avesse in mente?»
La mia amica svia lo sguardo, provando a vedere come le sta un vestito argentato coperto di paillettes. Siamo inseparabili dall’asilo e conosco tutte le sue tecniche per glissare quando sa di aver fatto qualcosa di sbagliato. Quella dei vestiti è la sua preferita.
«Clari?» insisto, mettendomi tra lei e lo specchio del negozio. Quando sbuffa, le tolgo il vestitino e incrocio le braccia al petto.
«No! Non le ho chiesto nulla! Contenta?» mette il broncio e scatta sulla difensiva. «Mi ha placcata dopo l’appello di lunedì e tu sai come sono quando passo un esame»
Trattengo un sorriso, perché so davvero in che stato finisce appena firma il voto d’esame. E lunedì aveva lingua tedesca, che l’ha perseguitata per mesi.
«E quindi?»
«Quindi le ho detto che ci saremmo state e mi sono dileguata prima che iniziasse a parlare di nuovo. Sai che Giada è logorroica»
«Sì che lo so. Ma potevi sopportarla almeno un po’, no? Così adesso sapremmo il tema della festa a tema»
Sbuffa di nuovo, facendo tremolare la sua frangia castana e alzando gli occhi al cielo. Occhi che, poi, mi guardano come quelli del gatto con gli stivali di Shrek quando vuole fregarti.
«Tanto la chiami tu, vero?»
«Non ci penso nemmeno» sbraito, portandomi via il vestito nel camerino più vicino. «E poi io nemmeno posso venire. Lavoro venerdì»
«Cosa?!» Clarissa spalanca la tenda e mi segue dentro. Ha tra le mani un nuovo top rosso ciliegia e un paio di jeans e non ho idea di quando li abbia presi. «Tu devi venire, Chiara. Sei obbligata! Non ci sarà anima viva a quella festa e se manchi anche tu tanto vale che io resti a casa»
«Povera» le scompiglio i capelli per prenderla in giro. «Ma so che ha invitato mezzo dipartimento di economia e alcuni ragazzi di biotecnologie. Non mi sembra così deserta»
«Ma è questo il punto! Parleranno solo di cose assurde per tutta la sera, facendo battute su economi o robe di chimica che non capirò mai! Chi me le spiega se non ci sarai tu?»
«Dovresti portare mio fratello. Fede sarebbe ben felice di colmare le tue lacune»
Clari mi dà una sberla sul braccio. «Adoro tuo fratello ma no, grazie. Ha ancora una cotta assurda per me e non voglio dargli false speranze»
«Guarda che lui lo sa. Solo che ha troppa fiducia in se stesso per lasciarti perdere. È convinto che prima o poi cederai al suo fascino»
«Ecco perché devi venire tu e non Federico. Sai che ho la sbronza allegra»
«E senza freni» l’ultima volta è finita con il baciare un tizio del nostro corso di linguistica che nemmeno conosceva, così, perché le ispirava che fosse bravo a baciare. Sbagliava, ovviamente. «Quel tipo con gli occhiali ancora propone gruppi di studio e serate alcoliche su Whatsapp»
«Non. Ricordarmelo» scandisce, infilandosi i jeans e il top. Inutile dire che le stanno da dio.. «Che te ne pare? Per venerdì andrebbero bene»
«Se sapessi come dovresti vestirti, sì, sarebbero perfetti»
«Come dovremmo vestirci. Noi. Tu ed io, perché venerdì verrai con me a casa Monti. Chiaro, Chiara?»
Detesto quando dice “Chiaro, Chiara” e lo sa. Infatti quella strega mi ammicca nello specchio del camerino, e sorride, come se avesse appena chiuso la questione. Non se ne parla proprio.
«Clari io lavoro dopo domani. Ricordi?» mi indico, nel cambio tra la mia comoda maglia oversize e il vestito argentato. «Baby-sitter a una bimba di quattro anni»
«Figlia del più gran bel figo che io abbia mai visto» si sventola con la mano, fingendosi accaldata al pensiero del mio datore di lavoro. «Come potrei scordarlo?»
«Non avrei dovuto farti vedere la sua foto»
Lei ride mentre io mi guardo nello specchio. Indosso un vestito che costa un occhio della testa e che quindi non posso permettermi, ma che è davvero fantastico, corto al punto giusto da non essere volgare e mettere lo stesso in mostra le gambe.
«Ucciderei per avere le tue gambe. Vestita così stai benissimo e saresti perfetta per venerdì»
«Ah ah. Non attacca»
Faccio diversi giri, per controllare da ogni angolatura come mi stia l’abito, e più lo guardo, più faccio fatica a pensare ai cento motivi per cui non posso assolutamente ricorrere al fondo per le emergenze. Questa non è per niente un’emergenza, è solo un bel vestito che andrebbe bene per una festa a tema di cui non ho idea di che tema abbia.
«Lo so!»
Mi giro verso la mia amica mentre smanetta sul cellulare.
«Sai cosa?»
«Il tema!» esulta, alzando gli occhi dallo schermo e studiando il mio stile con un sorriso che mi ricorda quello di una maniaca. «È The Roaring Twenties. I ruggenti anni venti»
Accidenti. Questo vestito sarebbe perfetto sì. È esattamente nello stile degli anni venti e mi mancherebbe solo un cerchietto coordinato per essere perfettamente a tema. Accidenti!
«Devo lavorare» borbotto, sfilandomelo dalla testa e riponendo sulla gruccia. «Niente festa a tema»
Clarissa prova a convincermi di quanto sia assolutamente necessario che io partecipi alla festa di Giada. Però, ed è un bene che la mia amica non possa leggermi nella mente, non ha idea che io stia pregustando l’arrivo di una serata a tema di tutt’altro genere. Perché in realtà non vedo l’ora di andare a lavorare venerdì.
Non vedo l’ora di bussare a casa di Kevin Solberg e passare una serata a tema coccole e cartoni con una dolcissima bimba americana di quattro anni.
Questo sì che è un tema perfetto.

Il ricordo di noi

Buongiorno 😊

Questo racconto è nato per e partecipa alla XX Challenge Raynor’s Hall, una sfida di scrittura amatoriale indetta da Raynor’s Hall! Il tema, a differenza dalle altre sfide, questo mese consisteva in un’immagine (questa qui sopra e a fianco)! Ho aspettato un po’ per l’ispirazione e questo racconto ne è il risultato. Spero vi piaccia 😊

Fisso il salvaschermo del mio tablet e mi perdo l’inizio della lezione. Non mi sforzo nemmeno di fingermi interessata a seguirla, le parole del professore che si azzerano a sottofondo. Continuo a osservare l’immagine e quando lo schermo diventa nero, premo il tasto di sblocco e ricomincio da capo, andando avanti così per non so quanto.
Sblocco, guardo la foto finché non scompare e poi di nuovo dall’inizio. Il cervello in un loop quanto lo sono le mie azioni.
L’abbiamo scelta insieme. Solo a questo riesco a pensare.
La ninfea d’acqua su uno stagno soleggiato mi lampeggia davanti un’altra volta, facendo sbuffare Clarissa, la mia migliore amica che, seduta qui accanto, sta digitando sul laptop come una forsennata. Dovrei farlo anche io, se voglio passare il seminario e laurearmi, ma proprio non ci riesco.
«Chiara smetti di torturare te stessa e la batteria di quel coso» mi sussurra, abbassandosi per non farsi sentire dal professore tre file avanti. «Se n’è andato. È uno stronzo. Passa oltre»
«Clari…» protesto debolmente, continuando a premere sullo schermo per illuminarlo ancora.
Eppure ha ragione. Se n’è andato e sapevo che lo avrebbe fatto. L’ho capito nell’istante in cui ha posato il cellulare e mi ha guardata, dopo la fatidica chiamata della sua ex, dopo avergli sentito dire in un’infinità di occasioni che Charlotte ha, e avrà sempre, la priorità, che per il suo bene farebbe di tutto.
Persino caricare armi e bagagli su un aereo e tornare oltreoceano dalla stronza fedifraga, che ha lasciato marito e figlia di appena quattro anni per “vivere un’avventura”. Charlotte, quell’angioletto castano dagli occhioni dolci, avrebbe dovuto essere la sua avventura e se lo avesse capito fin dall’inizio, io adesso non sarei qui a disperarmi per il mio cuore infranto.
Però, se Beatrix non avesse tradito e lasciato Kevin, lui e Lotte non sarebbero mai venuti a Milano e non avrebbero mai cercato una babysitter a tempo pieno, non entrando proprio mai nella mia vita come un uragano di tempera e brillantini.
Quel colloquio di assunzione non avrebbe potuto essere più assurdo e mi ritrovo a sorridere. Charlotte, mentre Kevin è venuto ad aprirmi, ne ha approfittato per schiacciare tutti i tubetti di colore e di brillantini con cui stavano giocando, trasformando il tavolo in una tavolozza sfavillante. Kevin ha evitato di chiedermi se avessi esperienza con i bambini quando mi sono rimboccata le maniche e ho coinvolto Charlotte in un trucco di magia chiamato “Clean&Reverse”, pulisci e rovescia. Le ho fatto trasformare un tavolo sporco in uno pulito in un attimo e mezzora dopo sono stata assunta.
Lo sfondo del tablet lo abbiamo scelto lei ed io tre settimane dopo.
Sblocco lo schermo per l’ennesima volta, sfiorando i petali della ninfea bianca e le foglie che galleggiano accanto. Quel pomeriggio mi sono divertita un mondo con Charlotte, preparando i biscotti che poi lei e suo padre hanno divorato fino a quando non è stata ora di andare a letto. Aveva in corpo talmente tanti zuccheri da sembrare un flipper e siamo riusciti ad addormentarla solo dopo averla inseguita per mezzo salotto, placcata e portata di peso in camera sua. Poi Kevin ed io siamo collassati sul divano, spalla a spalla, e per la prima volta ho sentito che sarebbe stato diverso, che lui era diverso da chiunque avessi mai conosciuto.
Ancora non sapevo che mi sarei innamorata di un americano, che l’idea di non dovermi più occupare di Charlotte mi avrebbe fatta sentire vuota. La verità è che dopo solo tre giorni senza di loro mi sento come se mi avessero strappato il cuore. Ma qualcosa mi diceva che sarei finita in questo stato.
Cosa credevo? Che un uomo bellissimo, realizzato e con la bambina più dolce che abbia mai incontrato avrebbe scelto me? Che avrebbe dato il benservito alla madre di sua figlia per stare con una studentessa venticinquenne? Mi sono illusa che i sette anni di differenza tra me e Kevin non sarebbero stati un problema, che non gli importasse.
Ma a quanto pare ero la sola a pensarla così. Altrimenti non mi avrebbe rinfacciato di essere solo una sciocca ragazzina.
«Christ, Chiara! You’re just a silly girl! You’ve not even lived yet»
E Kevin aveva la sua parte di ragione nel dire che ancora non ho vissuto davvero, che non fatto nessuna esperienza degna di essere ricordata. Nessuna in confronto alle sue. Ma se adesso penso a cosa mi piacerebbe fare, riesco solo a immaginare di passare i miei giorni con quei due, stando ad ascoltare la vocina di Charlotte canticchiare e Kevin che mi racconta come ha passato la giornata.
E non va bene! Non sono mai stata una che si svilisce, non l’ho fatto per nessun ragazzo e non lo farò per un uomo che ha tranquillamente deciso di andarsene senza guardarsi indietro, né pensare a chi si lasciava alle spalle.
Fa un male cane immaginare che non li rivedrò più ma Kevin mi ha mal giudicata. Sì, sono giovane, ma non sciocca, e se lui ha preferito tornarsene dalla ex moglie, allora non sono io ad avere dei problemi. Non avrò fatto ancora nulla nella mia vita, ma lui mi ha dimostrato che a volte tutte le nostre grandi esperienze non servono a granché. Non se ci allontanano da ciò che desideriamo davvero.
Kevin non ha voluto far parte della mia vita e di tutto quello che farò in futuro? Peggio per lui, perché io ho intenzione di godermi ogni istante da adesso in avanti.
Guardo lo sfondo del mio tablet ancora una volta. La ninfea bianca mi sfiora dolce, con i raggi del sole che mi scaldano il cuore esattamente come il ricordo delle due persone che mi hanno cambiato la vita. Kevin e Charlotte saranno sempre con me, in ogni sorriso, in ogni battito del mio cuore, ogni volta che starò male pensando a quanto li amo e che lui ha detto di no. La ninfea sarà tutto ciò che resterà di noi, nel bene e nel male.
Guardo quel fragile, resistente, bellissimo fiore ancora un’ultima volta. Poi lascio che scompaia prima di mettere il tablet in borsa. Mi avvicino a Clarissa e le picchietto su una spalla. Se c’è una persona che può aiutarmi ad andare avanti, quella persona è lei e avrò bisogno di tutto l’aiuto possibile per mettere in atto il mio piano.
Perché starò anche soffrendo e sarà impossibile per me dimenticarli, ma nulla mi vieta di provarci, di vivere. Di splendere e di farlo in grande stile.

Una scribacchina bagnata fradicia #40 : Oniria

Questa sarà l’ultima cosa che dirà: Correte!

 

Mya rilesse più volte i tratti a carboncino incisi sul muro. Era passata una settimana e ancora nessuna notizia di Fred e suo figlio.
Le avevano assicurato che una volta ricevuti i soldi non sarebbe stato difficile far entrare la sua famiglia in città, dare loro dei documenti e un posto sicuro dove stare per qualche giorno. Le avevano detto che si faceva regolarmente e che niente andava mai storto, se si sapeva trattare con le guardie. E Fred e suo figlio sapevano bene come farlo, loro erano dei veterani in quel settore. Era chiamato Trasporto beni ma a essere “trasportate” erano persone, spesso intere famiglie, e non merci, com’era scritto sulle carte da presentare ai cancelli di ingresso.
La busta grigia in cui aveva nascosto le monete era ancora incastrata nella tasca interna della mantella; si era scordata di buttarla e quando non aveva più avuto notizie da Fred, si era convinta che quella fosse l’unica prova in grado di confermare che aveva seguito le istruzioni – nella città di Oniria le buste grigie servivano solo per uno scopo, tutti lo sapevano e tutti fingevano che non fosse vero.
In quel momento però era come avere una scheggia infilata in profondità nella carne, sentiva il suo peso aumentare ogni secondo ed era certa stesse lanciando invisibili segnali per essere trovata. “Sono qui” urlava dalla sua tasca tutte le volte che una figura passava davanti alla finestra rotta del deposito. Se una guardia le avesse chiesto i documenti non avrebbe potuto nasconderla e allora nessuno le avrebbe evitato di finire in una prigione nascosta chissà dove sotto le fogne della capitale, con la sua famiglia costretta a anni di fame per quel tentativo di tradimento.
Soffiò sulle mani per attenuare il freddo, mentre continuava a leggere la scritta a carboncino scarabocchiata sul muro di fronte a dove si era seduta per aspettare. Avevano scritto tirannide. Oniria stava regredendo ma, qualunque cosa volesse dire, a Mya non interessava. La Legge sulla Classificazione aveva raggiunto il mezzo secolo l’anno prima della sua nascita e nemmeno i suoi genitori sapevano com’era vivere prima che fosse il loro Signore a decidere quale dovesse essere il lavoro e la città di ogni singolo abitante. Il giorno dei suoi sedici anni si era recata dal delegato inviato dalla capitale come gli altri suoi coetanei e aveva ascoltato la sua voce monotona elencare la città in cui avrebbe vissuto e il suo lavoro. Per lei il verdetto era stato un colpo atroce: “Oniria, cameriera per la famiglia Deveroux”.
Il delegato non aveva fatto una piega leggendo ma la sua amica Trish, due file davanti a lei, si era voltata per guardarla. Era sconvolta, proprio come lo furono i suoi genitori e i suoi fratelli e sorelle quando disse che se ne sarebbe andata il mattino seguente. Lei era la prima a lasciare casa e nessuno della sua famiglia si era mai trasferito più a sud di Poyn, un paesino a mezza giornata di cammino dal suo. Ma lei andava a Oniria, la città più grande mai costruita e lontana migliaia di chilometri, e per sua madre fu quasi come vederla morire. Le aveva detto che, a una tale distanza, era impossibile per loro anche solo pensare di potersi incontrare. Erano due anni che non li vedeva e le notizie che riceveva erano poche.
L’orologio all’angolo della strada batté quattro colpi e le mura del deposito tremarono tutte e quattro le volte. Per quel giorno non aveva più tempo di aspettare ma mentre si alzava e puliva la polvere dai vestiti pensò che, se anche fosse rimasta lì un’altra ora, non sarebbe arrivato nessuno. Tolse un pezzo di gesso dalla tasca e segnò una piccola stanghetta sul pavimento, accanto alle altre fatte nei giorni precedenti.
Con quella erano otto. Fred le doveva otto volte ciò che aveva pagato, una per ogni giorno di ritardo, però sapeva che non li avrebbe rivisti. Aveva sprecato due anni di stipendio più tre anticipi per riuscire a far entrare in città almeno due dei suoi fratelli e ora non aveva più nulla. Sarebbe dovuta sopravvivere fino alla prossima primavera senza un soldo, con un pasto al giorno e niente legna per scaldarsi.
Uscendo in strada, Mya si coprì il volto con il cappuccio e nascose le mani nelle ampie tasche della cappa, più per non farsi vedere che per attenuare il freddo. Se qualche corriere che frequentava Villa Deveroux l’avesse incontrata mentre usciva da un deposito dismesso, avrebbe avuto la sua dose di problemi a spiegare perché si fosse trovata in quella zona.
E poi doveva fare in fretta.
Quella sera i signori Deveroux avrebbero tenuto una festa per la maggiore età della loro primogenita e Mya doveva aiutare la signorina a prepararsi.
Un compito spiacevole, perché la sua presenza non era molto gradita a Lady Clara.
A passi veloci si lasciò alle spalle il deposito, il grande orologio all’angolo della strada e la bottega del conciatore dove già brillavano le luci delle candele. 
Conosceva il tragitto a memoria: arrivata alla taverna gestita dalla donna grassa, girava a sinistra e poi sempre dritta fino alla fontana dove un cieco chiedeva l’elemosina, superata la quale si trovava a sud del parco confinante con Villa Deveroux. Da lì impiegava circa dieci minuti, con due svolte a sinistra intervallate da una a destra, per arrivare al cancello sul retro, quello della servitù.
Il ticchettio prodotto dai tacchi dei suoi stivaletti sul lastricato della strada era accompagnato di tanto in tanto dal motivetto fischiettato da alcuni avventori della locanda e a mano a mano che vi si avvicinava, Mya si stringeva sempre più sotto la pesante lana della mantella. Le era già successo che qualche cliente la fermasse per chiederle dove stesse andando o per invitarla a restare e non voleva dover di nuovo affrontare la stessa situazione. Purtroppo la strada era stretta in quel punto e la sua andatura veloce attirò molta più attenzione di quanto avrebbe voluto.
Un paio di uomini si misero a fischiare mentre passava, la chiamarono e quando lei proseguì dritta per la sua strada, abbandonarono la bettola e la seguirono. Mya cercava di non guardare indietro, di fingere che non avesse paura di loro e che i loro appellativi non fossero rivolti a lei, ma il cuore le martellava nel petto così forte che temeva stesse per esplodere.
«Signorina» la chiamarono entrambi, le voci alticce e biascicanti per il troppo alcool. «Perché non torni indietro con noi?»
Li sentì ridere ma non osò voltarsi indietro per vedere quanto si fossero avvicinati. Intravedeva già la sagoma della fontana, sentiva lo zampillio dell’acqua e quasi distingueva la voce del mendicante cieco dagli altri rumori; era certa che ci fossero altre persone ma finché non fosse arrivata alla piazza sarebbe stata sola. Doveva affrettarsi.
L’ansia era così forte che non si accorse di una fessura tra due lastre. Finì per restarvi incastrata con il tacco dello stivaletto e se non avesse allungato la mano verso il muro sarebbe certamente caduta.
Si chinò e afferrò lo stivaletto con entrambe le mani. Lo tirò e strattonò con forza nel tentativo di liberarlo, tuttavia più cercava di stringere i bordi di pelle, meno ci riusciva a causa del freddo che le intorpidiva le dita. Sentiva le voci farsi sempre più vicine, soddisfatte, addirittura euforiche; lei invece respirava a fatica, tesa perché presto quei due uomini le sarebbero stati accanto.
«Ti sei fermata finalmente» il primo dei due che la raggiunse afferrò il cappuccio della mantella e le scoprì il volto. «Come siamo carini»ì
«E giovani anche» l’altro si mise alla sua sinistra. Con quei due sistemati in quella posizione, Mya non sarebbe riuscita a scappare nemmeno dopo aver liberato il piede.
Raddrizzò la schiena e ruotò il busto all’indietro per cercare di allontanarsi, ma il tacco non le permise di muoversi nemmeno di un centimetro. A ogni respiro sentiva l’odore dell’alcool proveniente dalle loro gole.
«La mia signora avrà mandato qualcuno a cercarmi» si accorse troppo tardi che non avrebbe dovuto dire nulla, quando due paia di occhi la fissarono divertiti.
«La tua signora non vorrebbe vederti camminare da sola» l’uomo che le aveva tolto il cappuccio allungò una mano verso il primo bottone della mantella. «Le strade sono pericolose»
Inorridita, Mya lo allontanò con una spinta. Aveva una paura folle ma non avrebbe permesso loro di toccarla.
Aveva ancora la mano protesa verso l’uomo che aveva spinto quando qualcuno le cinse le spalle con un braccio e la allontanò dai due ubriachi.
«Buonasera, signori. Mia sorella vi ha recato problemi?»
Alla parola “sorella”, i due uomini guardarono insoddisfatti il nuovo venuto. Anche Mya inclinò la testa leggermente all’indietro, meravigliata che qualcuno fosse giunto in suo aiuto. 
Da quella posizione non riusciva a distinguerne i tratti del volto ma si accorse che era giovane. Un giovane uomo le cingeva saldamente le spalle con un braccio e le teneva la schiena reclinata, vicina a sfiorare il suo petto, per allontanarla dai due inseguitori. 
«Vostra sorella?» domandarono quelli all’unisono.
«Esattamente» la mano libera del ragazzo si spostò lungo il fianco, dove pendeva un pugnale. «Vi ringrazio per averla tenuta lontana dai guai»
Un balbettio di scuse e rassicurazioni si levò dalle labbra dei due uomini, mentre si spingevano l’un l’altro per allontanarsi in fretta da Mya e dal ragazzo armato.
«State bene?» il giovane la lasciò e dopo che si fu spostato davanti a lei come farle da scudo, seguì con lo sguardo i due fuggiaschi.
«Ora sì» Mya contemplò il profilo del suo salvatore, indecisa se ringraziarlo subito oppure no, ma preferì concentrarsi su come liberare il tacco dello stivaletto. Fece per chinarsi ma il ragazzo la bloccò afferrandole un braccio
«Lasciate che vi aiuti»
«Sono in grado di continuare da sola» 
«Non dubito delle vostre capacità, ma della buona fede degli uomini che vi hanno seguita» la bocca del giovane si fermò vicino all’orecchio di Mya mentre parlava. «Non credo vi lasceranno andare se ci separiamo subito»
Mya guardò lo sconosciuto, sospettosa. Dagli abiti sembrava un giovane di buona famiglia, non ricco ma rispettabile, e nonostante il suo aspetto poco curato, possedeva dei bei lineamenti. 
Le sue iridi, poi, erano braci non del tutto spente, nere come l’abisso più profondo e allo stesso tempo illuminate da un bagliore quasi impercettibile. Mya non riusciva a vederlo, lo sentiva solo nell’intensità con cui la guardava e non sapeva dire se sarebbe riuscita a negargli anche la più piccola richiesta.
«Accompagnatemi fin dopo la fontana» fu il massimo che poté concedere a lui e a se stessa. «Conoscete il parco a sud di Villa Deveroux?»
Il giovane annuì, lasciandola andare, poi si inginocchiò per aiutarla a togliere il tacco dalla fessura in cui si era incastrato.
«Come vi chiamate?» le chiese rialzandosi, una volta che il piede fu in grado di muoversi.
«Dovreste dirmi il vostro nome, prima» Mya si risistemò il cappuccio sulla testa, ricordandosi tutto a un tratto di dove si trovasse.
«Zen» il giovane fece una piccola riverenza abbassando appena il capo.
«Mya» sistemò la mantella e prima di incamminarsi controllò che i due ubriachi si fossero davvero allontanati.
«Ora che so il vostro nome, vi chiedo di perdonarmi, Mya»
«Perdonarvi per cosa?» non riuscì a essere veloce quanto il ragazzo nei movimenti e quando spostò il peso da una gamba all’altra per voltarsi, era già troppo tardi perché si accorgesse del pericolo e si allontanasse da lui.
Con mezzo passo Zen le fu alle spalle e con una mano infilata sotto la mantella, le puntò contro lo spazio tra le scapole lo stesso pugnale che fino a poco prima pendeva lungo il suo fianco e che aveva fatto scappare i due uomini, mentre con l’altra le coprì la bocca per impedirle di urlare.
«Ho bisogno del vostro aiuto, Mya. Vedete quegli uomini laggiù?» la spinse avanti di pochi passi, finché entrambi non videro un gruppo di cinque o sei individui dalle espressioni terrificanti, fermi accanto alla fontana e intenti a tormentare il vecchio cieco. «Ho bisogno che veniate con me e fingiate di essere mia sorella» 
Mya avrebbe preferito andarsene, non aiutarlo, ma come rifiutare quando aveva un pugnale puntato contro la schiena. Se fosse riuscita a uscire viva da quella situazione, ripromise a se stessa che non avrebbe mai più messo piede in quella parte della città; anzi, non sarebbe mai più uscita da Villa Deveroux per il resto della sua vita. Tutto pur di tornare sana e salva.
«Non provate a scappare o chiedere aiuto» sentì distintamente la punta del pugnale premere contro i vestiti. «Avete capito?»
Mya annuì per quel che le riuscì.
«Bene» finalmente la mano di Zen si staccò dalla sua bocca. Il pugnale, però, restò dov’era. «Vi chiamate Katy e siamo arrivati a Oniria una settimana fa. Ripetetelo»
«K-k-k…» non riuscì a pronunciare il nome. Non poteva, era pericoloso e aveva paura di essere scoperta e uccisa.
«Katy! Non è difficile» la voce di Zen, che non si era scomposta nemmeno una volta, sembrò tradire un briciolo di impazienza.
«Poi potrò tornare a casa?» le gambe le tremavano molto più di prima ma non aveva ancora perso la speranza.
«Sì, ma solo se farete ciò che dico» la pressione del pugnale scomparve ma la mano di Zen restò ancora sotto la sua mantella, nel caso si fosse messa in testa l’idea di poter scappare.
Mya non aveva mai dovuto dimostrare di avere coraggio. La vita non l’aveva messa di fronte nemmeno una volta a quella prospettiva e dal giorno dell’assegnazione, si era limitata a seguire ciò che i signori Deveroux le dicevano di fare. Cucinava, puliva, aiutava Lady Clara a vestirsi o faceva compagnia alla vecchia balia che aveva accudito la signorina e suo fratello per quasi dieci anni; non aveva altri compiti da svolgere e se non avesse cercato di far entrare la sua famiglia in città, sarebbe uscita raramente dalla Villa.
In quel momento, però, doveva essere abbastanza coraggiosa per fare quello che il ragazzo le aveva chiesto, anche se la sua non era stata esattamente una richiesta. Si accorse che in fondo non era niente di diverso da ciò che faceva tutti i giorni. Si trattava di eseguire un ordine e non faceva differenza che esso venisse dai suoi padroni o da uno sconosciuto.
Mya raddrizzò le spalle per riguadagnare un po’ di contegno e benché sentisse il cuore battere all’impazzata, quando si voltò per guardare Zen sentì di essere in grado di farlo. Doveva solo continuare a pensare che alla fine sarebbe tornato tutto esattamente com’era prima di quella sera.
«Sono vostra sorella Katy. È una settimana che siamo in città»
Mya tenne lo sguardo fisso sul volto di Zen mentre lui annuiva alla sua complicità e la spingeva verso la piazza.
Uscendo dalla stradina buia i suoi occhi apparvero a Mya ancora più magnetici di quanto lo erano stati fino a pochi attimi prima; non si era chiesta perché quel ragazzo ben vestito avesse bisogno del suo aiuto o che affari avesse con quegli uomini, ma aveva capito che, più della paura o del desiderio di rimanere in vita, era stata quella misteriosa forza emanata dagli occhi di Zen a convincerla ad aiutarlo. 
Non sapeva assolutamente nulla di lui; poteva essere un criminale della stessa specie dei due ubriachi che l’avevano seguita dalla taverna o di quella degli uomini che doveva incontrare. Eppure non si sentiva in apprensione o intimorita nel camminargli accanto, la sua presenza in certo qual modo la rassicurava, perché aveva l’impressione che con Zen al suo fianco non le sarebbe accaduto nulla. Era sciocco da parte sua, ne era conscia, però non poteva evitare di avere fiducia in lui e nella luce emanata dai suoi occhi.
«Non parlate finché non ve lo chiederanno» glielo sussurrò all’orecchio pochi istanti prima che un individuo tarchiato li vedesse e li indicasse al resto del gruppo. Immediatamente, il vecchio cieco smise di essere l’oggetto delle loro attenzioni e Mya lo invidiò moltissimo quando vide che strisciava il più lontano possibile.
Zen appoggiò la mano contro la sua schiena e la incoraggiò a avanzare finché non arrivarono accanto alla fontana. Lì si fermarono e per un secondo Mya si chiese se quei malviventi stessero davvero aspettando loro due. Nessuno fece un passo verso lei e Zen, né dissero niente; rimasero immobili, gli sguardi fissi su di loro come se li stessero soppesando.
Mya non si era aspettata una reazione simile. La sua idea era che quegli uomini li avrebbero attaccati non appena fossero stati abbastanza vicini, proprio come con il mendicante, quindi quell’immobilità la faceva sentire a disagio. Prese a fissare gli stivaletti pur di non dover vedere quei volti che la squadravano dalla testa ai piedi; se il tacco non si fosse incastrato, lei non si sarebbe ritrovata in quella situazione e sarebbe rientrata a Villa Deveroux senza incorrere in alcun tipo di problema. Non avrebbe mai incontrato lo sguardo magnetico di Zen e nulla di tutto quello sarebbe mai accaduto.
«Quindi lei è vostra sorella?» un uomo si fece largo in mezzo al gruppo.
Alto all’incirca quanto Zen, ma sicuramente più vecchio di lui, aveva un aspetto curato, gli abiti puliti e in ordine; i capelli erano biondi e lunghi, tanto che sarebbero arrivati fin sotto le spalle se non li avesse tenuti legati con una striscia di corda.
A differenza degli altri, se lo avesse incrociato in altre circostanze, Mya non sarebbe mai stata in grado di capire che persona fosse; in un’altra occasione, avrebbe pensato a lui come a un uomo perbene. Le uniche cose che tradivano quella visione erano la spada e il fodero che spuntavano da dietro la sua schiena.
«Non vi somiglia molto» si avvicinò finché non fu esattamente di fronte a Mya.
«Abbiamo due padri diversi» la mano di Zen nascosta sotto la mantella si contrasse mentre l’altro uomo li controllava e l’elsa del pugnale finì contro la scapola di Mya.
«Capisco… Come ti chiami?» le domandò dopo aver fatto un giro completo.
«Katy» si sforzò di non tremare mentre rispondeva. Zen le aveva assicurato che sarebbe tornata a casa, perciò voleva fare la sua parte in modo impeccabile, così lui avrebbe mantenuto la parola.
«E dimmi, Katy, da quanto siete in città?» 
«Da una settimana» l’uomo biondo non le tolse gli occhi di dosso un solo istante. Quello sguardo le fece venire i brividi. Sembrava una bestia pronta a divorarla.
«Quindi, se dovessi chiederti se è tuo fratello lo stupido che ha cercato di mandare in rovina i miei affari otto giorni fa, tu cosa risponderesti?»
«Che è impossibile»
«Lo giureresti? Sulla tua vita, magari» l’uomo si allontanò e con movimento fulmineo estrasse la spada, puntandola dritta alla gola di Zen. «O forse, è meglio sulla sua?»
Mya si sarebbe certamente messa a urlare se Zen non le avesse puntato nuovamente la punta del pugnale contro la schiena. Di sottecchi lo guardò, ma dalla sua espressione non trapelava nulla, come se il volto e la mano appartenessero a due persone diverse.
«Mia sorella vi ha detto che è impossibile» la voce era calma, niente a che vedere con la tensione irradiata dal suo braccio.
«Voglio sentirla giurare» il filo della lama tracciò un leggero segno rosso sotto il mento. «Sempre che possa farlo» l’uomo biondo girò la testa verso di lei. «Allora, Katy. Sei certa di voler giurare sulla sua vita che non è stato lui?»
Mya non sapeva cosa fare, perché temeva che, qualunque fosse stata la sua risposta, né lei né Zen sarebbero stati risparmiati. Tuttavia, la sensazione di fiducia nei confronti del ragazzo che prima l’aveva aiutata e poi costretta a fare ciò che diceva non si era attenuata, nemmeno con un pugnale puntato contro la schiena. Era incomprensibile ma era convinta che Zen non le avrebbe fatto nulla di male.
«Lo giuro» si sentiva braccata da quello sguardo ma non poteva fare altro.
«Peccato, Katy, sempre che sia questo il tuo nome» gli occhi famelici indugiarono su Mya. Tremava all’idea di cosa avesse in serbo per lei quell’uomo ma alla fine spostò la sua attenzione sul collo e il volto di Zen. «Vuoi dire qualche parola prima di essere ucciso?»
Zen alzò un angolo della bocca, come accennando un sorriso. «Solo una: correte!»
Mya capì che era rivolta a lei nell’istante in cui la mano di Zen e il pugnale si staccarono dalla sua schiena per colpire il costato dell’uomo biondo.
Non aspettò per vedere la reazione degli altri uomini mentre quello che doveva essere il loro capo veniva attaccato; raccolse tutte le sue forze, si voltò e iniziò a correre a più non posso verso una delle stradine laterali. Qualcuno urlò di non lasciarla scappare ma i passi dei suoi inseguitori si spensero quasi subito.
Forse era stata la sua immaginazione, ma le era sembrato di vedere le ombre di più uomini muoversi in direzione opposta alla sua.